ROMA - Non è un bicchiere che straborda, come alcuni dirigenti del Pd vorrebbero far credere nei commenti post elezioni eurpee, ma non è nemmeno un bicchiere prosciugato, del quale parlano i loro avversari. Stavolta, il commento più equilibrato lo ha fatto, seppur pro domo sua, Matteo Renzi, che ha parlato, riferendosi al risultato elettorale del suo partito, di sostanziale “pareggio”.
Sebbene infatti i Dem abbiano toccato un nuovo minimo storico alle elezione europee del 26 maggio, perdendo altri 110mila voti rispetto alle politiche del 2018, in fondo la perdita è limitata, se si tiene conto dell’affluenza poco oltre il 50%, che ha colpito principalmente il M5s, ma affligge un po’ in generale anche tutti gli altri partiti, eccetto ovviamente la Lega. La consolazione dei vertici del Nazareno, se non altro, non è tanto data dal fatto se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto, ma piuttosto quella che un bicchiere ancora ci sia e che al suo interno ci siano ancora tracce di consenso. Se queste tracce fossero un liquido, sarebbero probabilmente un buon chianti, visto che nella rossa Toscana la base del partito ha retto, permettendo al Pd di sperare persino in un rifiorire, in futuro, di qualche altro innesto in altre vigne della Penisola.
Proseguendo con le metafore non è solo un buon chianti ad aver avuto un ruolo centrale nell’analisi post elettorale della dirigenza Dem, visto che l’ex premier Matteo Renzi ha autoassegnato alla propria strategia dei pop corn (ossia quella di stare all’opposizione e osservare lo schianto del governo, o meglio dei 5 Stelle), il risultato non brillante ma nemmeno negativo del partito. Visto che funziona? Continua a sostenere Renzi, così come funziona la linea dura contro il dialogo con i 5 Stelle, insiste l’ex premier, con l’intenzione di sottrarre al segretario in carica Nicola Zingaretti il merito dei voti racimolati alle Europee. A forza di dirlo sembra poi che pure Zingaretti alla fine ci creda davvero, anche perché creare una diatriba su di quale strategia sia il merito del risultato non gli interessa poi molto.
Molto più interessante, per la dirigenza del Pd, è invece capire come continuare ad allargare il contenitore che ha tenuto dentro dal liberale moderato Carlo Calenda, campione di preferenze al nord, al medico di Lampedusa Pietro Bartolo, simbolo dell’accoglienza ai migranti che ha spopolato al Sud. E in questo la strategia che il Pd sembra voler adottare è farsi concavo e convesso a seconda delle necessità, tenendo sempre presente poi, che oltre ai moderati di Calenda e agli scissionisti di Liberi e Uguali, che lentamente stanno ritornando all’ovile, in mezzo ci sono i renziani, che seppur alle strette, sono ancora la maggioranza nei gruppi parlamentari. Condensare tutto questo in un programma politico, magari mettendoci dentro anche i verdi con le loro battaglie ecologiste, Italia in Comune di Pizzarotti per dare voce ai territori e gli europeisti liberisti di Più Europa di Emma Bonino, diventa però compito arduo. Se si guarda alle Europee infatti del programma non si è fatta menzione, anche perché sebbene quello Dem fosse sicuramente il più interessante e il più completo, sarebbe stato difficile spiegare perché quelle proposte non fossero state attuate prima, visto che il Pd a Bruxelles era in maggioranza. E così si è preferito buttarla sulla retorica del Pd come l’unico argine all’odio propugnato dalle destre sovraniste, continuando a scommettere sulla scomparsa dei 5 Stelle e sul ritorno del bipolarismo.
Una tattica che ha funzionato e che dopo il risultato che li ricollocava come secondo partito italiano dopo la Lega, sia Paolo Gentiloni che Zingaretti hanno ribadito come un mantra: “Noi siamo l’argine al sovranismo di Salvini”. E persino il segretario della Lega glielo ha concesso: “Il mio nemico è il Pd”, ha detto, accettando la sfida.
In fondo conviene a entrambi replicare l’alternanza destra e sinistra e cancellare quel fastidiosissimo M5s che ha osato mettersi in mezzo. LME