Stavolta la protagonista di questa storia non è una famosa cantante, artista, scienziata, un’atleta con le sue imprese sportive o un’imprenditrice in ascesa. Stavolta parliamo di una ragazza, mamma e moglie giovanissima di 24 anni, di Catania, che potrebbe essere facilmente una nostra sorella, cugina, figlia o nipote, parte di una generazione senza colpa, ma che deve fare i conti con la ricerca di una vita agiata a migliaia di chilometri da casa. Un racconto che potrebbe risultare familiare soprattutto alle prime generazioni d’italiani e che serve anche a ricordare chi siamo a quella porzione di connazionali che lo ha dimenticato e che ha lasciato che le radici italiane, nate nella generosità e nella resilienza comunitaria, si seccassero. Il tutto mentre anche l’Australia perde la memoria e lascia pochi spiragli per i ‘nuovi’ italiani.
La storia di Roberta La Causa è una vera e propria odissea tra visti, datori di lavoro poco chiari ed enti ancor meno affidabili che spingono gli immigrati verso visti temporanei e poco utili nel lungo termine. E poi, la ricerca della casa in un oceano dove gli agenti immobiliari si dimostrano troppo spesso squali che richiedono documenti su documenti per l’affitto di un monolocale qualunque in sovraccosto e in stato pietoso.
L’immigrazione italiana non è stata mai coccolata: non dimentichiamo il razzismo verso i nostri predecessori, oggi invece idolatrati in scenette parodiche per far ridere i figli dei wogs, quelli ‘originali’. Ma, oggigiorno, bisogna anche scontrarsi con un’irriconoscenza per ciò che la nostra cultura ha apportato a una nazione pressocché desolata fino ai primi anni 2000, dove proprio quei wogs hanno costruito strade, case e soprattutto cultura. La storia di Roberta La Causa, e di altre migliaia di persone dal percorso simile, si imbatte anche in governi più attenti al budget che alla qualità dell’immigrazione, con un’offerta di visti costosi, una vera e propria ‘lista della spesa’, visti che però non offrono alcuna garanzia di permanenza. L’unica garanzia? Il versamento per ottenere il visto.
Imperdonabile memoria corta australiana, come quando, durante la pandemia da COVID-19, l’allora primo ministro australiano Scott Morrison disse ai tantissimi giovani con visto temporaneo bloccati nel limbo dei lockdown: “It’s time to go home”. Un’altra porta sbattuta in faccia.
Sempre più difficile per gli immigrati italiani il percorso di permanenza in Australia
Una macchinazione burocratica quasi diabolica quella tra il sistema dei visti studenteschi e le leggi che ne limitano la flessibilità. I tanti italiani che arrivano, per la maggiore, si aggrappano agli Student Visa con la speranza di trovare uno spiraglio per rimanere, con una voglia di lavorare e affermarsi che servirebbe a una Australia che sta diventando ‘Paese di manager’. Ma ecco il controsenso: i visti studenteschi costano tantissimo, ma sono regolamentati severamente, non concedendo agli studenti di lavorare per più di 24 ore a settimana. Allora come pagare le rate del corso di studi, ma anche l’affitto, la spesa quotidiana, i trasporti e le spese mediche per eventuali infortuni o imprevisti vari? Sono visti che fanno felici le casse dello Stato e i portafogli degli agenti d’immigrazione, soprattutto quelli che mascherano il tutto dietro le famose ‘consulenze gratuite’. Un mare di documenti e burocrazia nel quale è facile naufragare, perché chi lotta, magari, trova la riva, ma non trova certezze.
Quattro anni fa Roberta si trasferisce, insieme al marito Domenico Privitera, in Australia, per seguire il cognato che per primo si era immerso in questa avventura, ottenendo quindi il primo visto, Working Holiday Visa. Roberta e Domenico, insieme già da anni, capiscono le possibilità di una vita più facile rispetto a quella che gli si prospetta in Sicilia (paghe bassissime e condizioni lavorative ridicole) e decidono di ottenere il secondo Working Holiday Visa, attraverso il classico periodo di lavoro presso una fattoria nella zona regionale del Victoria. Però, un ‘dolce imprevisto’ cambia tutti i piani: “Un giorno scopriamo che sono incinta, a pochi mesi dal nostro arrivo”, racconta Roberta. La giovane coppia capisce che l’Australia non è più un’avventura, ma una necessità di regalare un futuro migliore alla piccola Alice.
Tra le imprese della coppia, anche riuscire a prolungare la validità dell’assistenza Medicare di ulteriori sei mesi con un breve viaggio in Asia – la copertura Medicare ha una valenza di sei mesi per gli italiani con la possibilità di rinnovarla ogni volta si rientra in Australia. La fortuna vuole che Alice nasca l’ultimo giorno disponibile: “Meno di 24 ore dopo il parto, sono rientrata a casa per evitare di pagare esorbitanti somme”, continua.
Siamo in piena crisi pandemica e, mentre migliaia di italiani hanno dovuto fare le valigie e andar via, la piccola famiglia riesce a ottenere il Covid Visa. Le peripezie però continuano: “Alla scadenza di questo visto speciale, nonostante avrei voluto evitarlo, ho dovuto richiedere uno Student Visa (con il quale ha ottenuto il Certificate III come assistente agli anziani e ai disabili, ndr). La richiesta viene accettata, ma per un errore burocratico, il visto ottenuto non dura dodici mesi, ma undici”, racconta la giovane mamma, che però non si abbatte, nonostante tutto.
“A quel punto abbiamo richiesto preventivi per il visto studentesco a tanti enti in tutte le maggiori città australiane, ma l’amministrazione Albanese ha poi eliminato il mio certificato tra le categorie papabili per un possibile Sponsor Visa”. Questo visto, con il quale il datore di lavoro può sponsorizzare la permanenza del dipendente, diventa quindi il loro obiettivo che, nel frattempo, si allontana sempre più. Arriva così il tempo di richiedere un nuovo visto studentesco, ahimè, e i preventivi ‘gratuiti’ rilasciati dagli enti contattati nascondono aggiunte di spese poco chiare, che toccano anche i seimila dollari: “Abbiamo deciso quindi di evitare le agenzie e lavorare alle documentazioni da soli. Il tutto agli sgoccioli del precedente visto. Ancora una volta, dopo altri rifiuti iniziali e all’ultimo giorno disponibile, con l’ovvio panico del dover tornare in Italia, vengo accettata nel nuovo corso di studi come assistente per bambini. Un lavoro che adoro”.
Oggi, Roberta e Domenico, che nel frattempo lavora come operaio edile, si ritrovano a dover combattere per trovare un datore che premi la loro buona volontà con un tanto sperato Sponsor Visa, mentre il nuovo visto durerà due anni. E, come accennato, le restrizioni per gli studenti riguardanti il massimo di ore lavorative settimanali non fanno che rendere questo traguardo sempre più lontano: “Poter lavorare solo 24 ore settimanali significa non poter ricevere un contratto a tempo pieno, che è l’unico contratto con il quale i datori di lavoro possono sponsorizzare il dipendente”, spiega Roberta. Un altro controsenso del sistema.
Ma il sogno di “non lasciare assolutamente l’Australia” non svanisce, soprattutto per la piccola Alice che non sa ancora quanto il mondo dei grandi sia assurdo.
“Benvenuto, figlio di nessuno in questo Paese”, canta Francesco De Gregori in Raggio di sole.