Fu Dante a teorizzare la lingua per primo e a portare a vette altissime il volgare parlato nella sua città natale, Firenze. Il Sommo Poeta parlò di Italia prima ancora che la Penisola fosse davvero una singola entità (andate a pagina 7 per avere un’idea di com’era frammentata a livello politico l’Italia del Trecento), definendo gli italiani “le genti del bel paese là dove ‘l sì suona”. Scrisse in volgare tutte le sue opere e, all’interno della Commedia, si trova il 90% delle parole più frequenti dell’italiano in uso oggi, come riporta l’enciclopedia Treccani.
Per arrivare alla lingua di Dante dal latino, c’è stata ovviamente una lunga e graduale evoluzione, le cui tracce sono sparse per la Penisola. Alcuni dei primi esempi di volgare, sono stati segnalati dal linguista Giuseppe Antonelli nel suo libro “Il museo della lingua italiana” (2018), dove vengono catalogati sessanta tra documenti e oggetti che l’esperto considera emblematici nella storia dell’italiano. Uno dei primi risale al 770-780 dopo Cristo e, in realtà, divide gli studiosi: molti reputano infatti l’Indovinello veronese un testo latino con delle anomalie più che un appunto in volgare. Venne scritto da un amanuense a Verona, a margine di un codice antico. è un gioco enigmistico che verrà citato in tempi più moderni da Giovanni Pascoli e Umberto Eco. La parafrasi è: “Teneva davanti a sé i buoi/ arava bianchi prati/ e aveva un bianco aratro/ e un nero seme seminava (Se pareba boves/ alba pratalia araba/ et albo versorio teneba/et negro semen seminaba)”. La soluzione? Si sta parlando delle dita che scrivono su fogli bianchi con una penna d’oca e l’inchiostro.
Successivo (800-850 d.C.) è un graffito rinvenuto a Roma, nella catacomba di Commodilla, su un affresco che raffigura la Madonna con il Bambino e due santi. Sarebbe un promemoria (o una presa in giro) per il celebrante della Messa a cui viene ricordato di “non svelare i segreti”, ovvero di non recitare a voce alta delle orazioni che, secondo il rito, andavano invece dette a voce bassa (Non dicere ille secrita a bboce).
Il primo documento ufficiale che utilizza in maniera consapevole il volgare è invece un atto notarile del 960, stilato a Capua, nel principato longobardo di Benevento. Il Placito Capuano doveva risolvere una disputa legata al possesso di alcuni terreni, e proprio una formula recitata dai testimoni che conferma il proprietario legittimo venne fatta ripetere dal giudice nella lingua parlata e registrata di conseguenza dal notaio parola per parola. Il significato è chiaro già a una prima lettura: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
L’uso dell’italiano volgare, da quel momento, si fece più diffuso in molteplici contesti, fino a venire celebrato ed esaltato da Dante nel Trecento.