Non si può negare che, nel corso degli anni, l’Australia si sia garantita a pieno titolo la possibilità di essere celebrata e valorizzata a livello globale come un faro del multiculturalismo, un Paese che accoglie a braccia aperte persone provenienti da tutto il mondo, con l’obiettivo di creare una società ricca di opportunità per tutti e, nella valorizzazione delle differenti culture, un Paese coeso e un centro di integrazione.
Ovviamente, come tutto ciò che è politica e società, anche l’aspetto del multiculturalismo ha vissuto e vive momenti complessi, alti e bassi, tra i critici che ne colgono, magari in maniera a volte un po’ catastrofista, le minacce proprio all’assimilazione e alla tenuta dell’identità nazionale e i sostenitori che continuano a vederlo come una fonte di forza e vitalità sociale ed economica.

Solo il tempo ci dirà se quanto accaduto nei giorni scorsi in Parlamento e nel conseguente dibattito politico, avrà la forza di scalfire l’essenza stessa del matrice multiculturale della società australiana, ma già da ora sembra delinearsi l’ennesimo quadro di mancanza di unità, acceso tra l’altro da toni che non fanno altro che polarizzare le opinioni e creare divari tra schieramenti politici e strati sociali.

L’uscita dal partito laburista della senatrice Fatima Payman ha scatenato una sequenza di reazioni che rispecchiano, in chiave parlamentare e non solo, tutto quello che sta succedendo nelle strade e nelle università, davanti agli uffici di molti parlamentari e di fronte a sedi istituzionali, dal giorno del terribile attacco terroristico di Hamas in Israele e dalla conseguente risposta, dura e pesante, del governo Netanyahu nella striscia di Gaza.

Il fronte a supporto della liberazione della Palestina continua a far sentire la sua voce, con le preoccupazioni, più che legittime, per una condizione umanitaria in Gaza al limite della sostenibilità, confusamente mescolate a dichiarazioni e prese di posizione radicali ed estremamente ideologiche che faticano, ad esempio, ad eliminare fondamentali equivoci di slogan urlati spesso con poca cognizione di causa, quali l’ormai nota “dal fiume al mare” che, nella complessità di significati, ha anche un’idea, che è quella più volte ribadita da Hamas, che implica la negazione stessa dello Stato di Israele. 

Le posizioni della senatrice Payman, che hanno portato alla sua uscita dal partito laburista, hanno un indubbio valore all’interno del dibattito sulla questione palestinese ma ne hanno uno ancora maggiore nell’ambito della politica interna australiana, con i laburisti che ora si trovano davanti alla necessità di fronteggiare un potenziale problema in alcuni seggi chiave, alla stregua di quello che i liberali si sono trovati a subire nelle precedenti elezioni con la ‘valanga’ delle candidature indipendenti, ben finanziate, che hanno scalzato figure di rilievo, pensiamo all’ex Tesoriere Josh Frydenberg, per citare il più noto, da seggi ritenuti solidi fino ad allora.

Vedremo, in fase di avvicinamento alla prossima tornata elettorale, anche le conseguenze della dichiarazione del primo ministro Anthony Albanese che ha detto di temere che possa essere “minata la coesione sociale” nel caso di crescita di partiti politici confessionali, dichiarazione che è suonata però anche come una puntualizzazione un po’ tardiva, avvenuta solo dopo che la questione Payman si era ormai conclusa.

Ma così come è vero quanto sottolineato dallo stesso Albanese, ovvero che la senatrice Payman ha ottenuto circa 1.600 voti di preferenza a fronte di più di cinquecentomila voti di lista per il laburisti in Western Australia, è altrettanto vero che, in occasione dell’elezione dell’ormai ex senatrice laburista, furono molto i cori di apprezzamento per questa giovane senatrice, tutti più o meno di questo tenore “Sono fiero che il nostro Stato sia rappresentato da Fatima a Canberra. La senatrice Payman è una musulmana australiana con radici culturali afghane”, scriveva su X, appena dopo le elezioni, Patrick Gorman, parlamentare laburista di Perth, attuale sottosegretario al Primo ministro, così come lo stesso Anthony Albanese, anche giustamente, si complimentava per l’elezione della neo senatrice.
Come dire, fino a quando è funzionale alla narrazione del partito aperto, accogliente, multiculturale e anche multireligioso, la prima senatrice a osservare il Ramadan in Parlamento, a indossare l’hijab in Aula, la sua stessa fede musulmana, non costituiva un “pericolo per la coesione sociale” anzi, era una sorta di grande opportunità di marketing politico, tutti ingredienti buoni per conquistare una certa fetta di opinione pubblica, più che di elettorato, se pensiamo ai 1600 voti.

Ma quando le posizioni di chi, portatrice dichiarata di una convinzione religiosa, si affrancano dalle indicazioni del caucus del partito, allora scatta inevitabile la necessità di compattarsi e reagire. Tutto abbastanza scontato, se vogliamo, tutto parte di una dinamica interna alle regole di funzionamento del partito laburista che, tra l’altro, non era nuova certamente neanche alla senatrice Payman.

Il punto politico, però, è ben più ampio e tocca proprio il livello di riflessione aperto dal primo ministro, ovvero il tema della possibile frattura della coesione comunitaria. 
In un momento in cui, e l’abbiamo visto la scorsa settimana con Dutton e le sue dichiarazioni di ‘lotta socialista’ contro i colossi della grande distribuzione, nel tentativo di rispondere alle tensioni derivanti da una condizione di incertezza economica dilagante la politica trova più semplice rispondere con proposte populiste, il rischio è che queste continuino a creare divari, a polarizzare, invece che unire, a creare buoni e cattivi, a individuare ‘nemici’ invece di trovare compattezza sociale. 

Non sappiamo se, alla fine, la senatrice Payman deciderà di formare, o aderire a un nuovo partito politico con il movimento ‘The Muslim Vote’, ma se quelle di oggi sono le premesse, non sembrano lanciare un grande messaggio di unità e di condivisione di intenti. 
Albanese e il suo governo ha avuto un ruolo in tutto questo? Probabilmente non hanno aiutato le dichiarazioni un po’ ambigue sugli eventi del 7 ottobre e sugli ostaggi ancora in mano dei terroristi, ma soprattutto certi atteggiamenti permissivi rispetto alle proteste che proseguono nelle maggiori città australiane e che hanno culminato con la ‘scalata’ al tetto del Parlamento a Canberra della scorsa settimana. 

Quanto tutto questo abbia a che fare con un multiculturalismo che porti vantaggi a una società, è tutto da dimostrare, fermo restando che è invece indubbio che proprio il multiculturalismo sia una complessa intersezione di sfide e opportunità. È un delicato equilibrio tra celebrare la diversità e mantenere la coesione sociale. Le politiche devono essere progettate per favorire l’integrazione, evitando la segregazione, e promuovere una comprensione reciproca. La chiave sta nell’educazione, nella promozione di dialoghi interculturali e nel riconoscere che la diversità può essere una forza unificante piuttosto che divisiva.

Il multiculturalismo non è la panacea dei mali del mondo né una minaccia esistenziale. È una realtà della società contemporanea australiana, con cui dobbiamo confrontarci in modo maturo e ponderato. Accogliere le nostre connaturate diversità, affrontare le sfide e lavorare per una società inclusiva e coesa è il cammino che l’Australia deve continuare percorrere, perché possa essere ancora un esempio di armonia e prosperità in un mondo sempre più polarizzato.