Non che le aspettative fossero molto elevate, rispetto alle sorti della Coalizione in vista dell’inizio di questa nuova legislatura dopo il disastroso esito delle elezioni di maggio, ma che tra le loro fila, soprattutto dal lato dei nazionali si arrivasse già a sfoderare le armi del populismo sembra più il frutto di una mossa disperata che una strategia ben congegnata.

Suona come un ritorno a un passato, che non è che abbia pagato chissà quanto, la volontà di Barnaby Joyce, sostenuto dal suo ex ‘rivale’, McCormack, di voltare le spalle all’obiettivo delle emissioni nette zero entro il 2050.

Proposta di legge più rumorosa che effettivamente realizzabile, quella dell’ex leader dei nazionali, che certamente cavalca i malumori delle aree regionali del Paese, quelle del proprio elettorato.

A livello personale, Joyce ha rimesso sé stesso al centro dell’agone politico, con Littleproud che deve fare i conti con scossoni non da poco per tenere solida la sua leadership.

Ma non ha considerato, o forse poco gli interessa, la necessità di iniziare una legislatura difficile con la giusta cautela che possa portare a una più che necessaria fase di riflessione su quanto accaduto nel precedente triennio. Al netto delle risultanze dell’ennesima revisione della sconfitta elettorale che i liberali hanno commissionato a Pru Goward e Nick Minchin, comprendere come si sia giunti a un disastro elettorale di tale portata è fondamentale per ricostruire le basi del blocco conservatore che, appare evidente, ha perso consenso perché ha perso identità e capacità di parlare alla base dei propri elettori.

Cavalcare la lotta alle politiche ‘net zero’ può avere senso nella direzione del consenso dei negazionisti climatici, ma che su questa base demografica si possa immaginare una ricostruzione in chiave elettorale appare davvero miope. 

Sarebbe, inoltre, come ammettere che non avere adottato questa linea di lotta politica sia stata la vera causa della sconfitta di maggio, ma evidentemente non è così. Anzi, forse è proprio la ragione opposta, dal fronte della Coalizione in questi anni non c’è mai stata una concreta proposizione di alternativa politica rispetto alla necessaria transizione ecologica. Joyce e i suoi compagni di avventura in questa proposta di legge si stanno posizionando come i protagonisti di una battaglia di retroguardia che rischia di rappresentarli come fautori di un conservatorismo incapace di raccogliere le sfide del presente.

Insomma, la spaccatura interna nella Coalizione è ormai strutturale. I nazionali, mai realmente convinti dal compromesso di Morrison del 2022, stanno approfittando della debolezza della squadra dei liberale per imporre la loro linea. Il problema non è solo la politica energetica: è la dinamica di una Coalizione dove il partner minore detta l’agenda e distrugge ogni velleità di credibilità governativa. 

La leader dell’opposizione, Sussan Ley, lo sa bene. Ha istituito un gruppo di lavoro guidato da Dan Tehan per elaborare una nuova piattaforma climatica, ma ogni passo in avanti viene sabotato dalla propaganda disfattista del blocco Joyce-Canavan.

Come ha osservato un deputato liberale, “nulla cambierebbe davvero se oggi abbandonassimo il net zero. Non siamo al governo. Ma faremmo arrabbiare un sacco di gente e ci autoetichettiamo come negazionisti. Sarebbe un disastro per i nostri seggi urbani, per l’economia e per la nostra credibilità”.

Le argomentazioni dei populisti dei cambiamenti climatici faticano a trovare concretezza. Pur tenendo in conto le debite differenze di emissioni totali, andrebbe considerata bene l’idea di un Paese come l’Australia che prenda posizioni diverse, se non opposte, rispetto al consenso a livello internazionale sul clima. 

Il che non vuol dire necessariamente non contemplare, nel dialogo a livello internazionale, la necessità di tutela dell’interesse nazionale ma non si può neanche chiudersi a riccio mentre il resto del mondo è ormai da anni avviato verso una direzione di transizione ecologica, ivi compresa la recente pronuncia, dalla valenza storica, della Corte internazionale di giustizia, secondo cui i governi sono obbligati legalmente a prevenire i danni da cambiamenti climatici.

Insomma, concretamente, al di là di personalismi e ambizioni politiche del tutto legittime, in un momento in cui il governo si trova in una fase in cui commisurare ambizioni e limiti strutturali, la Coalizione avrebbe un’occasione d’oro per impostare una proposta alternativa, realistica, che abbia nel mirino una qualche forma di transizione ecologica. 

Si potrebbe individuare una piattaforma dove far dialogare tutte le parti imprenditoriali coinvolte, quelle delle aree più minacciate dall’impatto dei cambiamenti climatici, dalle grandi siccità, dai devastanti incendi o dalle improvvise ondate alluvionali, e provare a trovare un approccio comune, tutto australiano, proprio di un territorio unico al mondo, senza condizionamenti ideologici che sono buoni per ottenere consenso immediato, o forse, come hanno dimostrato le urne di qualche mese fa, neanche per quello.

Il punto è anche un altro, e va oltre la battaglia climatica o la resa dei conti interna alla leadership dei nazionali, ed è quello legato al sistema di valori su cui ricostruire e consolidare la forza dei conservatori. 

Lo spostamento di questi ultimi anni verso destra, soprattutto nella rincorsa a facili populismi, sembra ben poco aderente rispetto all’idea di ‘partito di Menzies’ che tra i liberali si evoca spesso più come proclama che come reale riferimento valoriale.

Qui non si tratta di dimenticare, o rinnegare le basi storiche, ideologiche, valoriali, del proprio partito o della Coalizione, ma si tratta di essere in grado di applicare quei valori propri del mondo conservatore a un panorama sociale, economico, demografico, in continua evoluzione. Anche perché non farlo vorrebbe dire continuare a perdere drasticamente terreno.