L’attentato partigiano di via Rasella del 23 marzo 1944 fu un atto di guerra giuridicamente riconducibile allo Stato italiano che il 13 ottobre 1943 aveva dichiarato guerra al Terzo Reich, ma per il diritto internazionale va considerato illegittimo dal punto di vista materiale, avendo a riferimento l’art. 1 della Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907: i Gap (Gruppi di azione patriottica) che attaccarono l’11ª Compagnia del Polizeiregiment “Bozen” (formato da altoatesini, buona parte dei quali già militari del Regio Esercito prima dell’8 settembre 1943) non erano un esercito regolare e neppure un corpo volontario che rispondesse a specifici requisiti; la squadra di partigiani, pur facendo parte di un’organizzazione militare clandestina che seguiva le direttive del Comitato di liberazione nazionale e della sua giunta militare, non aveva un rapporto organico di subordinazione e quindi difficilmente avrebbe potuto essere considerata “legittimo organo belligerante”, come riconosciuto giuridicamente nei processi. La rappresaglia, compiuta l’indomani dalle SS con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, pur ammessa in linea di principio come mezzo di autotutela da un’aggressione, nel caso specifico non solo non rispondeva al principio della proporzionalità, ma esulava pure da quelli della prevenzione o della repressione, potendosi configurare come atto ingiusto e illegittimo di vendetta. Un crimine, appunto. Sulla vicenda storica da anni si affastellano polemiche, strumentalizzazioni, controversie politiche e semplificazioni manichee. L’esecuzione di 335 innocenti non aveva nessun appiglio legale nelle norme internazionali sulla rappresaglia o sulla repressione collettiva, costituendo pertanto un omicidio plurimo continuato che niente poteva giustificare sul piano giuridico e men che meno da quello morale. L’opportunità storica e politica di quell’attentato è un altro discorso, poiché il gesto dimostrativo della Resistenza innescò la rabbia nazista ma non l’auspicata rabbia popolare dei romani contro l’occupante. L’attacco rientrava dunque nelle possibilità operative dei Gap, ma va precisato che in nessun caso i suoi esecutori essi avrebbero avuto l’obbligo morale di presentarsi ai tedeschi come responsabili. Il disegno criminale dell’eccidio delle Fosse Ardeatine è poi comprovato dal fatto storicamente accertato che le autorità tedesche non affissero alcun bando militare d’intimazione a consegnarsi a pena di rappresaglia nella consueta proporzione di 10 italiani per un tedesco, come peraltro concordemente dichiararono pure durante i processi a loro carico il Feldmaresciallo Albert Kesselring e il capo della polizia tedesca a Roma (Sicherheitsdienst, SD), il tenente colonnello SS Herbert Kappler. Non ce ne sarebbe stato neppure il tempo: tutto il dramma si consumò tra le ore 15 del 23 marzo e le 19.30 del 24.
Radere al suolo il quartiere e fucilare tutti
I tedeschi non provarono neppure a cercare i colpevoli, ma si limitarono ad applicare lo spirito di vendetta che Adolf Hitler voleva addirittura nella stratosferica proporzione di 50 a uno. La popolazione non poteva in nessun modo rispondere di responsabilità collettiva (per di più essa non poteva assolutamente essere sottoposta alla pena di morte, in base all’art. 50 della Convenzione dell’Aja) e le vittime erano sicuramente estranee a quell’attentato per ideazione, esecuzione e conseguenze. A via Rasella era stata fatta esplodere una carica di tritolo, nascosta in un carretto da netturbino, innescata da Rosario Bentivegna. I morti erano 32 e i feriti 55, e tra le vittime anche un ragazzino di 12 anni, Pietro Zuccheretti, e un altro civile romano. Il comandante della piazza di Roma, generale Kurft Mälzer, in quello scenario agghiacciante di sangue e urla aveva minacciato di radere al suolo l’intero quartiere e fucilare tutti i residenti. Il console Eitel Möllhausen e l’addetto culturale dell’Ambasciata tedesca, il colonnello SS onorario Eugen Dollmann, interprete ufficiale di Hitler, erano riusciti a ricondurre il generale, ubriaco di alcol e di rabbia, a più miti consigli. Peggio di lui solo Hitler, che pretendeva la fucilazione di 1.650 ostaggi che non c’erano. E solo per questo si era ripiegato sulla canonica proporzione dei bandi militari di 10 a uno. Kappler pretese altri 10 nomi non appena seppe del decesso di un ferito del Bozen, che portava le perdite tedesche a 33 poliziotti, raggiungendo quota 330, ma la fretta con cui si integrò l’elenco tedesco dei 270 condannati a morte con la lista richiesta alle autorità italiane del questore Pietro Caruso, e con cancellazioni e integrazioni frettolose, se ne misero cinque in più: c’erano anche ebrei e arrestati dell’ultim’ora e persino alcuni che si ritrovarono nel gruppo casualmente.
Condanna processuale e morale
Kappler fu processato nel 1948 per le vittime in eccesso, ma la sentenza venne poi riformata per l’intera strage. Si difese asserendo di aver dovuto obbedire agli ordini, ma è acclarato che la disobbedienza non potesse essere punita col plotone d’esecuzione: lo stesso codice penale militare tedesco del 1926 all’art. 47 escludeva la pena di morte come sanzione per aver disobbedito a un ordine criminoso. L’ufficiale SS non aveva alcun diritto d’integrazione della lista perché il numero di 320 era già stato fissato e infatti il manifesto ufficiale fatto affiggere a Roma il 25 marzo riportava proprio questa cifra. L’incarico a lui era pervenuto dal generale Mälzer, dopo che il maggiore Hans Dobek, comandante del Bozen, si era rifiutato di procedere con i suoi uomini all’esecuzione ordinata da Hitler a Kesselring. Il comandante della 14ª Armata, generale Eberhard von Mackensen, riteneva sufficiente l’esecuzione di persone effettivamente già condannate a morte e comunque era per limitare numericamente la rappresaglia; si era chiamato fuori e aveva tenuto fuori la Wehrmacht: “La polizia è stata colpita, la polizia deve provvedere”. La giustizia degli uomini presentò il conto in tre processi: a Roma nel 1946 a Mälzer, a Venezia nel ‘47 a Kesselring, a Roma nel ‘48 a Kappler. Condanna a morte per Kesselring e Mälzer (pena commutata nel carcere a vita) ed ergastolo per Kappler, che nel 1977 riuscirà avventurosamente a evadere e a riparare in Germania dove morirà di cancro l’anno seguente. Ergastolo anche per il tenente Erich Priebke, con sentenza del 1998. Bentivegna riceverà la medaglia d’argento al valor militare per l’attività nei Gap a Roma e per l’attentato del 23 marzo 1944. Alle Fosse Ardeatine, come dichiarerà il medico legale professor Attilio Ascarelli alle Autorità alleate e in un’udienza del processo del 1948, i carnefici delle SS lasciarono “nello sfondo di due gallerie due enormi cumuli di cadaveri che occupavano uno spazio di circa cinque metri di lunghezza e tre di altezza e 1,50 di altezza. Le salme non apparivano distinte ma ammucchiate, sovrapposte, strettamente adese, del tutto irriconoscibili”.