BEIRUT - Riad ha lavorato tutto il giorno per svuotare una vecchia sede del partito comunista libanese a Tripoli, nel nord del Libano, capitale del sunnismo politico libanese, per far spazio a brandine e materassi su cui proveranno a riposare alcune famiglie sciite del sud del Libano, fuggite alla furia dei raid israeliani che da giorni si abbattono non solo contro Hezbollah ma contro una marea di civili libanesi. 

A Beirut, capitale del martoriato Paese, Elie è invece fiero di esser riuscito a bloccare, alle porte del quartiere cristiano-maronita di Ain Remmane, una fila di auto con a bordo altre famiglie sciite del vicino quartiere di Ghobeiri, anch’esse in fuga dagli attacchi degli aerei di guerra israeliani. 

Sono solo due delle numerose istantanee di un Libano plurale che in poche ore si trova, per l’ennesima volta nella sua travagliata storia, a ricomporre i pezzi di una società ferita da una nuova guerra e divisa al suo interno da sedimentate trincee comunitarie. Alcuni degli abitanti maroniti di Ain Remmane, seguaci del partito delle Forze Libanesi, e altri sciiti di Ghobeiri, vicini a Hezbollah e al suo alleato Amal, si erano scontrati, armati, tre anni fa in sanguinosi incidenti che avevano, per un giorno intero, rievocato il dramma della lunga guerra civile libanese combattuta tra il 1975 e il 1990. 

Due giorni fa l’esercito libanese, di fatto assente dal fronte sud con Israele, era intervenuto ai margini di Ain Remmane per sedare sul nascere alcuni disordini proprio tra abitanti del quartiere cristiano e famiglie di sfollati sciiti. 

Il resto del Libano sembra invece impegnato in una vera e propria gara di solidarietà per dare rifugio ai circa 90mila civili in fuga dai raid di Israele. Questi si aggiungono ai senza tetto che nell’ultimo anno di guerra avevano dovuto lasciare le loro case del sud del Paese dall’8 ottobre scorso preso in mezzo al quotidiano scambio di fuoco tra Hezbollah e Israele. 

Da Tripoli, dove Riad ha portato via scatole e mobili della vecchia sede del partito comunista, fino all’estremo Akkar, al confine con la Siria, dove le case degli allevatori e contadini si sono aperte a chi fugge dalla vicina zona di Hermel, nell’alta valle della Bekaa, il Paese sta riscoprendo mai scomparsi valori di solidarietà trans-comunitaria. “Perché - come sostiene Jana, studentessa di Batrun - siamo quasi tutti d’accordo in Libano nel percepire Israele come il nemico di tutti noi, un vero e proprio cancro per la regione”.  

Con la speranza di essere accolti oltre frontiera, alcune centinaia di famiglie libanesi si sono messe in marcia anche verso la vicina Siria, travolta da più di 13 anni di guerra e dalla quale, dal 2010 a oggi, sono arrivati in Libano circa un milione e mezzo di profughi. A lungo e anche di recente colpiti da vere e proprie campagne d’odio da parte di settori dell’opinione pubblica locale e da misure draconiane decise dalle autorità centrali e locali libanesi, i siriani possono ora trovarsi, paradossalmente, a dover aprire le porte del loro devastato Paese ai libanesi in fuga.