In un assolato giorno di metà luglio del 1985 Bob Geldof, leader e voce dei Boomtown Rats, formazione new wave con all’attivo fino a quel momento qualche dimenticabile successo in classifica (“I Don’t Like Mondays”), interverrà in maniera decisiva sulla storia della musica organizzando, con il supporto di Midge Ure degli Ultravox, il Live Aid. Oltre 70 dei più celebri musicisti della scena rock mondiale si esibirono davanti a oltre 160.000 persone, divisi tra il Wembley Stadium di Londra e il John F. Kennedy Stadium di Philadelphia, ripresi per oltre 16 ore in quella che è considerata la più grande diretta televisiva di tutti i tempi, seguita da oltre due miliardi di telespettatori in 150 Paesi del mondo; il tutto per raccogliere fondi per la grave carestia che negli ultimi due anni, a causa di siccità e disordini politici, aveva colpito l’Etiopia. Ai tempi si parlò di una cifra record che orbitava tra i 40 e i 50 milioni di sterline, ma ad oggi si presume che in realtà la raccolta toccò i 150 milioni.
Nella lunga sfilata di star le assenze ci furono e si fecero sentire, come quella dei Tears for Fears, che inizialmente dichiararono semplice indisponibilità, salvo poi manifestare dei dubbi riguardo la correttezza del modus operandi di Bob Geldof; dubbi confermati da Morrissey degli Smiths che spese parole ben poco edificanti nei confronti dell’organizzatore, definendolo “un personaggio nauseante e inquietante”. Problemi che vennero a galla nuovamente nel 2005 quando il giornalista di Fox News Bill O’Reilly criticò aspramente Geldof per non aver vigilato sui fondi destinati non ad associazioni benefiche operanti sul territorio, ma direttamente al governo etiope, finiti quindi a quanto pare in parte nelle tasche del dittatore in carica in quegli anni Mènghistu Hailé Mariàm, detto il Negus Rosso, nel 2008 condannato a morte in contumacia per genocidio; a suo carico, secondo Amnesty International, l’uccisione di oltre 500.000 persone. Ciò non toglie prestigio, per quanto riguarda la parte musicale, a un evento praticamente irripetibile.
Le danze si aprirono a Londra con gli Status Quo intorno alle 12 del mattino con l’esecuzione di “Rockin’ All Over the World” e di lì in poi uno snocciolarsi stellare di tutti i più grandi artisti della storia del rock. Alle 13.45 sul palco di Wembley salirono gli Spandau Ballet, un quarto d’ora dopo a Philadelphia Joan Baez, presentata da Jack Nicholson, che ricordando Woodstock canta “Amazing Grace”. Fu poi il turno di Elvis Costello da Londra che reinterpretò quella che presentò semplicemente come una “English folk song”, ma si trattava di “All You Need Is Love” dei Beatles e la sua versione, chitarra e voce, passò alla storia. Alle 14.40, in diretta da L’Aia, si esibì B.B. King al quale durante l’esecuzione di “How Blue You Can Get” gli si ruppe una corda della chitarra che sostituì senza interrompere il brano nemmeno per un secondo.
Alle 14.55 negli Stati Uniti si sfiorò l’evento nell’evento con l’esibizione dei Black Sabbath in formazione originale con Ozzy Osbourne di nuovo alla voce, ma la reunion non si materializzò mai. Nella mezz’ora tra le 15 e le 15.30 salirono sul palco Run-DMC, Phil Collins e Sting. Il Live Aid fu responsabile anche della reunion del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young. Il pomeriggio proseguì con l’esibizione, di seguito, di Bryan Adams, U2, Beach Boys e Dire Straits, un’ora che difficilmente sarà dimenticata dai presenti, specialmente da una ragazza in prima fila che, rischiando di restare schiacciata alle transenne per la troppa ressa, venne letteralmente salvata da Bono che abbandonò il palco per tirarla fuori improvvisando con lei un ballo.
Ma è alle 18.40 che il Live Aid diventa effettivamente storia grazie allo show offerto dai Queen; la partecipazione della band tra l’altro non era per niente scontata, questo perché, a differenza di come racconta erroneamente il film “Bohemian Rhapsody”, la band inglese era tutt’altro che separata alla vigilia del Live Aid e, anzi, proveniva da oltre un anno di “The Works Tour”, serie di concerti che toccò anche Sun City, considerata la città sudafricana simbolo dell’apartheid, cosa che li espose alle critiche di molti colleghi che al contrario avevano rifiutato di esibirsi in quella location nonostante i lauti cachet offerti.
Ecco allora materializzarsi un’altra congiuntura di intenti: Geldof vuole assolutamente i Queen, i Queen, nonostante non pienamente convinti del timing di 20’ messo a disposizione dalla scaletta, hanno bisogno di riabilitare la propria immagine con un evento del genere; Geldof sente Freddie Mercury al telefono e la cosa si risolve a patto che il loro show, naturalmente da Wembley, che l’anno prima avevano riempito da soli con uno dei loro concerti più famosi in assoluto, andasse in onda alle 18.40, in modo tale da chiudere la diretta da Londra e aprire quella da Philadelphia.
Quello che “Bohemian Rhapsody” racconta in maniera corretta è invece l’idea del fonico Trip Khalaf di disattivare i limitatori del sound system in modo tale che l’esibizione dei Queen risultasse decisamente più “forte” di quella di tutti gli altri gruppi. Alla fine lo show, che comprendeva l’esecuzione di “Bohemian Rhapsody”, “Radio Ga Ga”, “Hammer to Fall”, “Crazy Little Thing Called Love”, “We Will Rock You” e “We Are the Champions”, risultò essere in assoluto il migliore di tutto l’evento. Elton John, che andrà in scena più tardi, fermò Mercury e company una volta scesi dal palco urlandogli scherzando “Voi, bastardi! Avete rubato la scena a tutti”; un effetto che si declinò anche sulla raccolta fondi, pare infatti che durante quei 20’ le 300 linee telefoniche messe a disposizione dalla BBC esplosero.
La carrellata di stelle naturalmente continuò sull’altra sponda dell’oceano con altre esibizioni particolarmente degne di nota, David Bowie dedicò ai suoi figli “e ai figli di tutto il mondo”, una splendida versione del capolavoro “Heroes”. Alle 21.27 la cantante e attrice Bette Midler presentava una giovane Madonna al grido di “She’s great, she’s hot, she’s a lot like a virgin… she’s Madonna!”. Alle 21.50 saliva sul palco di Londra Paul McCartney, che Geldof voleva assolutamente in rappresentanza dei Beatles, la cui presenza pare facesse molto piacere dalle parti di Buckingham Palace.
Anche lo stadio di Philadelphia ovviamente si popola di stelle del rock: parteciperanno all’evento Neil Young ed Eric Clapton, mentre intorno all’una del mattino sul palco salirà di nuovo Collins che nel frattempo, grazie a un supersonico Concorde della British Airways attraversa l’oceano per raggiungere gli Stati Uniti in tempo per eseguire un paio di brani con i Led Zeppelin; “Assurdo! - dirà salito sul palco per la seconda volta nella giornata -. Questo pomeriggio ero in Inghilterra! Il mondo è strano”; su quel volo incontra Cher che non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma che si lascia convincere ad accompagnarlo al concerto e partecipare al gran finale.
Superate le 3 del mattino tocca invece a Mick Jagger che anticipa Tina Turner e Bob Dylan. Prima che sul palco entri Lionel Richie a dirigere il coro più famoso della storia, quel United Support of Artists for Africa che, fortemente voluto e messo insieme da Michael Jackson, inciderà il singolo “We Are the World”, rappresentando il finale perfetto per un evento che resterà per sempre nella memoria del mondo intero, il momento in cui la musica provò, seppur con discutibili risultati, a fare qualcosa di concreto ed eclatante per i più sfortunati.