NEW YORK - I loro nomi sono Norelle, Roya, Shalev, Carmit, Laila, Ron, Orit, Ricarda. I volti animano video condivisi sui social, in cui ballano, scherzano, cantano, scaldano momenti di vita nelle loro case, strappano le risate ai genitori. Sono i volti di giovani israeliani, simili a quelli di chi è morto a Gaza sotto i bombardamenti e di chi in tutto il mondo è sceso in piazza a manifestare in favore di Gaza e, in alcuni casi, a celebrare il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre. 

Tra quei 1200 israeliani uccisi, stuprati, bruciati, ci sono anche questi ragazzi, che una mostra inaugurata al piano terra del Palazzo di Vetro, sede delle Nazioni Unite, ricorda. Il progetto si chiama “Eternal Embrace”, l’abbraccio eterno, realizzato dalla fotogiornalista Ifat Peer, che ha raccontato la storia di venticinque madri che hanno perso i figli nell’attacco di Hamas. “Noi siamo qui oggi - spiega Sigal Shteiner Manzuri, che ha perso le figlie Norelle, 25 anni, e Roya, 22 - un anno dopo il giorno più terribile per Israele, e come non pensare ai circa centouno ostaggi che sono tenuti ancora prigionieri?”.  

“Cerco di restare ottimista - continua - e dare loro speranza. Prego perché resistano, ma è impossibile il solo dire qualcosa in questa situazione. Va oltre tutto quello che sapevamo prima”. “Un anno fa - ha detto tra le lacrime - è stato l’ultimo giorno che ho visto le mie ragazze”.  

“Noi - ha ricordato l’ambasciatrice Usa Linda Thomas-Greenfield - piangiamo 46 americani e la vita di altre 1200 persone che ci sono state portate via. Non ci fermeremo fino a quando tutti gli ostaggi saranno riportati sani e salvi a casa”. 

La mostra propone le storie delle giovani vittime, molte delle quali erano andate al festival musicale di Nova, diventato bersaglio dell’attacco terroristico. Attraverso un codice digitale, poggiando il cellulare, si accede ai contenuti video in cui le storie di ragazze e ragazzi vengono ricostruite, con i loro momenti di intimità e di gioia, le clip condivise sui loro account Instagram. Ognuno ha una storia da ricordare, universale.  

Come quella che ricostruisce la storia di Guy Bazak, che fin dall'età di due anni venne considerato un genio autodidatta: suonava il pianoforte, la chitarra, dipingeva, poi era diventato un esperto di climbing e ballerino. È morto dopo aver combattuto per tre ore e mezzo in un kibbutz, per proteggere la gente del posto dai terroristi.  

La madre di Laila Abbas, morto a 23 anni, ricorda il giorno in cui la vita le è cambiata per sempre. “Ero a Karmiel quando mio marito mi chiamò per dirmi che aveva un forte mal di denti e che stava tornando a casa. Mi chiese di preparargli una zuppa. A me sembrava strano che tornasse a casa per un mal di denti, così gli avevo chiesto se fosse tutto okay. Avevo visto una serie di chiamate sul cellulare, ma non avevo risposto. Cominciavo a tremare di paura. Aspettavo la chiamata di mio figlio, ma quella non arrivava”. “Poi mio marito si era fermato fuori, per strada, e mi aveva chiesto di andare con lui in macchina. Lì, durante il viaggio, mi disse cosa era successo”.  

Storie così sono decine e sono raccontate sui pannelli esposti. è un doloroso ma necessario viaggio nelle vite delle vittime, per restituirne la dimensione umana e universale, comune ai giovani di tutto il mondo, per non ridurli solo a statistiche e argomento per lanciare messaggi d’odio. È un modo di entrare nel cuore delle madri, di tutte le madri, hanno spiegato gli organizzatori durante la presentazione della mostra, per capire davvero cosa ha rappresentato per loro il 7 ottobre, e forse per spiegare ai giovani che chiedono la pace e, allo stesso tempo, l’eliminazione di Israele, che significato possano avere le parole.