Prima di diventare il re, anzi, il gladiatore dei doppiatori nonché attore di teatro, cinema, televisione, “The Voice” Luca Ward si è misurato con parecchi mestieri: bagnino, bibitaro, restauratore, attrezzista e pure camionista ad alto rischio, assaltato da una banda locale quando, in stile Manuel Fantoni con il suo “cargo che batteva bandiera liberiana” nel verdoniano “Borotalco” trasportava, ma nel suo caso per davvero, bulloni in Iraq. La voce “italiana” di Russell Crowe, Pierce Brosnan, Hugh Grant, Samuel L. Jackson lo racconta nella sua autobiografia “Luca Ward, il talento di essere nessuno”, ricca di aneddoti e curiosità.
“Ho cominciato a lavorare a 14 anni, come facchino, per portare soldi in famiglia dopo la morte prematura di mio padre Aleardo, attore come mia madre Maria Teresa Di Carlo, scelta anche da Federico Fellini nel ‘Satyricon’” ricorda Ward, 60 anni, raccontando di aver cominciato a muovere i primi passi attoriali da bambino: “Sandro Bolchi chiedeva a mio padre: ‘Me lo presti Luchino per una parte da ragazzino?’”.
Nonostante il debutto precoce Ward ha però cercato, finché ha potuto di tenersi fuori dal mestiere di famiglia, il nonno però era proprietario di una compagnia di navigazione commerciale, colpito dalla febbre gialla e gettato a mare dal suo equipaggio spaventato dal contagio e ammutinato, ma questo è un altro filone della sua vita da film raccontato in apertura del libro.
Nato a Ostia e fieramente coatto, come rivendica spesso nel suo libro, “per incoscienza e per soldi” a un certo punto si è dedicato anche alle corse clandestine in moto a Roma: “I miei sono stati attori talentuosi, ma sfortunati, facevano fatica ad arrivare a fine mese, per questo ho cercato di stare lontano dal mondo dello spettacolo - argomenta - perché il tuo destino è eccessivamente nelle mani degli altri: la bravura di un chirurgo o di un restauratore è un fatto concreto, quella di un attore dipende troppo dal giudizio degli altri”.
Ma il talento c’era, quello come recita il titolo del libro, di “essere nessuno”, e pirandelliniamente centomila considerando tutte le reincarnazioni della sua voce. E a un certo punto ha preteso di essere preso in considerazione: “Tutti abbiamo un talento nascosto dentro di noi, bisogna solo scoprirlo. Verso i vent’anni mi è venuta voglia di una rivalsa verso chi non aveva compreso mio padre, anche se ho dovuto lavorarci parecchio, all’inizio nel doppiaggio ero davvero un nessuno… “.
Gli toccavano poche battute, racconta, in stile “il caffè è pronto”, e il giudizio comune su di lui era: “Non hai la scintilla”. “Mi misi a studiare come un pazzo, passavo intere notti sveglio”. La scintilla arrivò, insieme alla consapevolezza, precisa che “non si doppia solo con la voce, ma con il cuore, con la testa e con la vita” e da lì il successo nel 1984, con il primo doppiaggio di un attore protagonista in “A trenta secondi dalla fine” del regista Andrej Konchalovskij.
Seguono doppiaggi mitici: Jackson in “Pulp fiction”, il bondiano Brosnan (“al provino mi emozionai”) e il Massimo Decimo Meridio de “Il Gladiatore”: “‘Al mio segnale scatenate l’inferno’, la battuta per la quale ancora mi fermano per strada, dovetti rifarla trenta volte, Fiamma Izzo, direttrice del doppiaggio non era mai soddisfatta…”.
Una fatica che, successo del film e del mitologico doppiaggio a parte, diventato quasi un protagonista a sé, ha dato i suoi frutti: “Dopo ‘Il Gladiatore’ sono arrivate le chiamate da attore, non ero più solo, genericamente, quello che fa doppiaggio..”. Da “Elisa di Rivombrosa” a “Capri” a “Cento Vetrine”, Ward da voce è diventato anche volto e oggi, chiarisce, non rinuncerebbe mai né a teatro, né a tv, cinema o doppiaggio “non solo per la passione, ma perché così hai la garanzia di lavorare tutti i giorni”.
Il mondo del doppiaggio però, spiega, non è più quello di una volta, soprattutto per quanto riguarda le serie internazionali: “Si lavora sulla velocità, gli episodi arrivano con il contagocce, e questo non permette lavorare al meglio” premette, dicendosi insoddisfatto di come, per esempio, ha dato la sua voce a Grant in “The Undoing” la serie cult targata Foxtel: “Fino alla terza puntata pensavo che fosse una commedia anziché un thriller psicologico, non si può fare un mestiere artigianale rendendolo industriale”.
I compensi però sono artigianali: “Un turno di doppiaggio di tre ore, quando va bene, viene pagato 200 euro lordi, ma ci si può fermare anche a 90 - chiarisce - e se si pensa a quanto guadagno i doppiatori portano al film è davvero poco”.
Ricca di aneddoti divertenti, a partire da quando attaccò il telefono in faccia alla segretaria di Brosnan pensando che si trattasse di uno scherzo, l’autobiografia di Ward non tralascia gli alti e i bassi della sua vita privata: dai sei anni impiegati per riconquistare la primogenita Guendalina che non voleva più parlargli dopo la separazione dalla mamma alla malattia rara, la sindrome di Marfan, di cui è affetta la terzogenita Luna, 11 anni, nata come Lupo dal suo secondo matrimonio.