C’era una volta un’Italia in ginocchio, segnata dalla guerra e da un’economia ridotta in macerie. Un Paese da ricostruire, pezzo dopo pezzo, senza certezze e con poca speranza. Negli anni difficili del secondo dopoguerra, migliaia di italiani hanno guardato oltre l’orizzonte, spinti dalla fame, dal bisogno e da un sogno: costruire una vita dignitosa altrove.
È il 13 maggio del 1955 e, tra questi, c’è anche Luigi Turco, un ragazzo appena quindicenne che lascia San Marco in Lamis per raggiungere l’Australia.
“Avevo paura. Mia madre mi diede cinquemila lire, e mi domandavo: “Se non trovo mia zia sulla nave, cosa faccio?”.
Inizia così la storia di Luigi, che attraversa l’oceano con la zia Angelina, unica adulta in grado di accompagnarlo legalmente in quel lungo viaggio della speranza. Il resto della famiglia? Sarebbe arrivato più tardi, un pezzo alla volta, grazie a biglietti pagati a rate.
“A quei tempi – racconta oggi con commozione – si partiva senza sapere se e quando ci si sarebbe rivisti. Ma avevamo una cosa: la speranza”.
L’adolescente arriva in una terra giovane e ancora tutta da costruire: l’Australia che accoglie Luigi infatti è molto diversa da quella che conosciamo oggi. “Non c’era nulla. Dovevi lottare per essere riconosciuto, per farti spazio, per sopravvivere”, asserisce Turco.
Il primo lavoro è in una fabbrica di scarpe. Turni massacranti, paga bassa. “Ma io volevo di più – prosegue Turco –; cercavo qualcosa che mi desse soddisfazione”.
Trova un impiego in un’azienda di costruzioni, La Prestigia. Non aveva mai fatto il muratore in Italia, ma qui si reinventa. “In questo mestiere ho trovato dignità, guadagno, passione”. Lo fa per cinque anni. Poi la svolta.
Nel 1972, a 33 anni, Luigi apre la sua attività: importa mattonelle dall’Italia, da Sassuolo, centro rinomato per le piastrelle, fino a quaranta, poi settanta container all’anno.
“Le prime le vendevo a casa, nel portico. La gente veniva a guardarle, incuriosita. Alla fine, le ho messe anche sul pavimento di casa, perché tutti mi chiedevano: ‘Ma come? E tu non le usi?’”, racconta sorridendo.
Da lì parte il passaparola, l’esclusiva sui prodotti italiani, la crescita.
“Lavoravamo con l’Italia, ma anche con Brasile e Argentina. Era dura: niente email, niente cellulari. Tutto via fax, lettere, telefonate notturne”.
Oggi San Marco Ceramics è una realtà consolidata con sede a Thomastown, distribuisce in tutta l’Australia, dalla Tasmania a Sydney, da Brisbane a Perth. Un’attività di famiglia: Luigi ha cinque figli, ognuno coinvolto in una parte dell’azienda. Uno si occupa delle importazioni, un altro di costruzioni, un altro ancora della logistica.
“Siamo cresciuti, ma con fatica. E sempre con la mia famiglia al centro di tutto. Se loro stanno bene, sto bene anch’io”.
E sebbene la moglie, con cui parlava a casa solo in italiano, sia scomparsa dieci anni fa, Luigi oggi – a 85 anni – non si dà per vinto: continua a vivere la sua vita a testa alta e lavora ancora sei giorni su sette.
“Vengo in azienda, cammino, controllo, parlo con le persone. Che dovrei fare a casa? Per me il lavoro non è un obbligo, è parte della vita. Mi tiene attivo, curioso, vivo”.
Sua figlia Angela racconta: “Papà ha sempre creduto nelle opportunità. In azienda sponsorizziamo italiani che vogliono lavorare qui. Vogliamo dare una mano a chi sogna, perché questa è ancora una terra dove c’è tanto da fare”.
Lei, con un piede in Italia e uno in Australia, confessa: “Se potessi, vivrei sei mesi qui e sei mesi lì. In Italia ci sono i valori, la qualità della vita. Ma qui c’è dinamismo, c’è lavoro”.
Parole che Luigi ascolta con orgoglio e che aprono la porta ai ricordi, anche difficili: “Quando arrivai, piangevo ogni sera. Mi mancava mia madre. Poi, dopo un anno, arrivò tutta la famiglia. Ci vollero anni per ripagare il debito del viaggio. Ma lo abbiamo fatto. E abbiamo garantito il benessere alla seconda e alla terza generazione”.
Oggi Turco riflette, soddisfatto, sul suo percorso: “Non pensavo che sarei diventato un imprenditore con venti operai. Ma se ci metti passione, se sei pronto a lottare, alla fine la strada si apre. Nessuno ti regala niente. Ma la vita, se la rispetti, ti restituisce tanto. E io mi sento un uomo davvero fortunato”.