BUENOS AIRES – Si può morire per affermare il diritto a usare la propria lingua? La risposta è sì.
Era il 1952, il Bangladesh si chiamava ancora Pakistan Orientale e dipendeva politicamente e amministrativamente dal Pakistan Occidentale (diventato poi Pakistan e basta).
L’assetto politico era nato a tavolino, con l’indipendenza dell’India. Una scelta scellerata, visto che i due Paesi non avevano niente in comune. Meno che meno la lingua: in Pakistan Occidentale si parlava e si parla l’urdu, in quello Orientale il bangla (variazione del bengali, vista la prossimità geografica con lo Stato indiano del Bengala).
Nel 1952, un decreto stabilì che la sola lingua ufficiale dei due Pakistan sarebbe stato l’urdu. Tutti i documenti, gli atti della pubblica amministrazione, i testi di legge, le lezioni nelle scuole e nelle università, i processi nei tribunal avrebbero adottato unicamente questa lingua, tagliando fuori, di fatto, metà della popolazione dai posti di lavoro della classe dirigente: funzione pubblica, avvocatura e magistratura, medicina, professioni liberali…
Numerosi studenti universitari si riunirono nelle strade di Dacca, capitale dell’allora Pakistan Orientale, per una protesta pacifica in difesa del bangla come lingua ufficiale, e subirono una violenta repressione da parte dell’esercito, con vari morti.
L’episodio diede il via alla rivoluzione che portò all’indipendenza del Paese.
Era il 21 febbraio 1952 e in ricordo di questa data, dal 2000, l’Unesco celebra ogni anno la Giornata internazionale della lingua madre, con l’obiettivo di preservare il multilinguismo (anche delle lingue native e minoritarie, oggi in pericolo di estinzione) e difendere il diritto a ricevere un’educazione nella propria lingua materna.
Alla luce di tutto questo, appare lungimirante – a distanza di oltre un secolo – la scelta dei primi immigrati italiani in Argentina di creare una rete di scuole della comunità. A nella sola Buenos Aires, a fine ‘800, ne esistevano per 16, gestite dalle società di mutuo soccorso, come l’Unione e Benevolenza.
L’Italia già allora sussidiava scuole all’estrero, create nel bacino mediterraneo, dove risiedevano le mire coloniali e commerciali dei vari governi. Mentre quelle argentine erano finanziate quasi interamente dalle associazioni.
All’inizio a insegnare nelle scuole italiane erano professionisti (avvocati, architetti) delle associazioni che si improvvisavano docenti. Poi iniziarono ad arrivare le prime maestre diplomate, le “signorine”, partite dall’Italia: bassi stipendi, ancora più bassi perché erano donne. In Argentina cercavano un’opportunità di futuro e si ritrovarono in miseria.
Fu il Fascismo, negli anni ’20, a introdurre la figura di una maestra pagata dallo Stato italiano. Una diplomata mandata all’estero per fare propaganda. È allora che si creò una scissione tra le scuoli fedeli al fascismo e quelle che rinunciarono all’appoggio dello stato per mantenersi ideologicamente indipendenti. Tra queste ultime, l’unica ancora funzionante è la Edmondo De Amicis di Buenos Aires (non a caso intitolata a un socialista).
Oggi il numero delle scuole italiane in Argentina è sceso enormemente, ma non il loro prestigio.
Tutte queste realtà hanno lasciato un contributo importante nella storia dell’educazione argentina. Nascevano da una riflessione su come sarebbe dovuto avvenire il processo di adattamento alla nuova società. Si interrogavano sul modello di cittadino che dovevano formare, su come immaginare l’identità sociale e culturale di un figlio di italiani cresciuto in Argentina. Fedele alla nuova patria, ma anche alle proprie radici.
Ancora più interessante la risposta: evitare un modello di integrazione-assimilazione alla francese, dove l’immigrato deve rinunciare alla propria cultura e ai propri valori, ma anche quello multiculturale inglese, dove convivono culture ed etnie senza avvero incontrarsi. La terza via all'’italiana: non ostacolare l’inclusione nella società argentina, offrire ai bambini strumenti per inserirsi, ma senza perdere la conoscenza della lingua e l’identità.