Con l’apertura dei lavori parlamentari, il secondo governo Albanese si trova di fronte a un’occasione storica e a una responsabilità politica senza precedenti. Dopo una vittoria elettorale forse anche sorprendente per quanto netta e devastante, che ha consegnato ai laburisti una maggioranza imponente alla Camera e ampi margini al Senato, l’Australia volta pagina rispetto a un decennio di lotte intestine, battaglie ‘personali’ tra leader e poca stabilità.
Dopo molti anni, abbiamo un esecutivo che sembra poter veleggiare con il vento in poppa, contando su una base parlamentare solida e su un’opposizione divisa e disorientata dopo il voto.
Ma è proprio qui che nasce la vera sfida: ora che Albanese ha vinto sul terreno della politica e dell’acquisizione del consenso, dovrà dimostrare di saper governare con visione e offrire al Paese la fiducia necessaria per immaginare un futuro migliore.
La forza del secondo mandato del primo ministro laburista non sta soltanto nei numeri, ma anche nell’attesa che essi generano. È la prima volta dal 2004 che un partito conquista una tale supremazia nella Camera bassa, e il carico simbolico di questa maggioranza va ben oltre la contabilità dei seggi. Dopo la lunga stagione della frammentazione parlamentare, delle mediazioni infinite e delle maggioranze appese a un filo, il nuovo corso laburista si presenta come una promessa di stabilità, ma anche come un banco di prova per la leadership riformista. Non ci si potrà più appellarsi all’alibi della debolezza dei numeri in Aula o della paralisi istituzionale: se il Paese continuerà a galleggiare senza una vera strategia di crescita, la colpa sarà da attribuire interamente al governo.
Il paradosso di questa nuova legislatura è che il partito più moderato degli ultimi anni ha ottenuto una delle maggioranze più ampie della storia recente. Anthony Albanese ha conquistato il potere senza proclami, senza rivoluzioni ideologiche, con un’agenda di governo fatta di piccoli interventi mirati e una narrazione rassicurante centrata sulla normalizzazione del messaggio e del progetto politico. Niente utopie, niente rotture radicali, solo una sequenza ordinata di misure tangibili: sostegno al salario minimo, riduzione del debito studentesco, rafforzamento dei sussidi per l’energia, investimenti nella sanità e nell’assistenza all’infanzia, sostegno alla transizione energetica, questi i primi punti dell’agenda di questo 48esimo Parlamento. La vittoria è arrivata nonostante – o forse proprio grazie a – una campagna priva di eccessi, basata su risultati verificabili piuttosto che su promesse roboanti.
Eppure, paradossalmente, quello che è bastato per vincere potrebbe non essere sufficiente per governare. La seconda legislatura di Albanese e della sua squadra non sarà giudicata con lo stesso metro della prima. La domanda non sarà più se il governo riuscirà a consolidare il consenso, già ampio, ma se sarà in grado di proporre un modello di crescita sostenibile, equa e competitivo. L’Australia esce da un decennio di stagnazione della produttività, con investimenti privati ai minimi, salari reali fermi da anni, un’economia affaticata da squilibri strutturali e da un apparato normativo sempre più farraginoso. La promessa implicita del voto del 2025 è che il secondo governo Albanese saprà finalmente affrontare questi nodi, superando la semplice gestione dell’ordinario.
In questo contesto, l’iniziativa del Tesoriere Jim Chalmers di convocare un tavolo economico nazionale rappresenta un segnale importante. Aprirsi a idee nuove, rompere con alcune ortodossie laburiste e cercare un terreno comune tra Stato e mercato, tra sindacati e imprese, tra efficienza e equità, è oggi una necessità storica più forte che mai.
Il rischio più grande per Albanese non è l’opposizione – che si presenta divisa, screditata e priva di leadership – ma l’inerzia interna al suo stesso partito. La sinistra laburista, oggi maggioritaria sia nel caucus che nella base, potrebbe rappresentare un freno culturale e ideologico proprio alla modernizzazione dell’agenda economica. Ma un secondo mandato senza coraggio riformista non sarebbe un consolidamento del primo, bensì un suo tradimento.
Il messaggio che arriva dal mondo produttivo è chiaro: l’Australia ha bisogno di un nuovo modello di crescita, non di un’espansione dello Stato che, in senso paternalista, regola il funzionamento dell’economia di mercato, né di un ulteriore irrigidimento delle relazioni industriali. È tempo di affrontare seriamente il tema della produttività, della pressione fiscale sulle persone fisiche, della competitività fiscale per le imprese, soprattutto per le piccole e medie attività economiche, della razionalizzazione della spesa sociale, dell’efficienza energetica e della fiducia degli investitori. Su questi fronti, le ricette tradizionali della visione dell’economia laburista rischiano di risultare poco adeguate. Non si tratta di rinnegare i valori progressisti, ma di declinarli in una chiave nuova, compatibile con le sfide dell’oggi e del futuro.
Sul versante opposto, il caos che agita la Coalizione offre uno specchio impietoso proprio di quello che l’Australia dovrebbe evitare. Il ritorno di fiamma tra Barnaby Joyce e Michael McCormack, protagonisti di un tentativo di restaurazione anti–net zero, mostra quanto sia profonda la crisi culturale del conservatorismo australiano. L’abbandono delle politiche climatiche, le faide interne, la mancanza di visione e il continuo sabotaggio reciproco rendono oggi i Nazionali quasi una caricatura di ciò che sono stati nel passato. Nonostante Littleproud provi a dichiarare serenità, le prime ore di vita parlamentare per il leader dei Nazionali non sono certamente iniziate sotto i migliori auspici.
E tutto questo è ancora più paradossale se si pensa a quanto sia necessario per l’Australia rurale un progetto serio di transizione energetica, mentre ai vertici del partito ci si perde in battaglie personali e rese dei conti degne di un film western dell’ottimo Sergio Leone. Un’opposizione debole, lo abbiamo ripetuto spesso, non è mai un vantaggio per una democrazia sana: può diventare un alibi per l’inerzia, o peggio, per l’arroganza di chi governa.
Anthony Albanese ha costruito la sua figura pubblica sull’affidabilità e sulla moderazione. È stato il leader della competenza, della responsabilità e del basso profilo. Ora però è chiamato a una trasformazione politica più profonda: diventare un riformatore. Senza abbandonare il pragmatismo, deve assumere su di sé il compito di guidare il Paese con una visione chiara, affrontando le resistenze interne, superando il timore del conflitto e scommettendo sul merito delle scelte. Il suo recente appello a un “patriottismo progressista” può essere il punto di partenza di una sintesi nuova, capace di parlare a tutto il Paese.
La storia non è tenera con i governi che si limitano ad amministrare. I grandi primi ministri laburisti – da Curtin a Whitlam, da Hawke a Keating – hanno segnato le loro epoche non tanto per le maggioranze parlamentari, ma per la qualità della loro visione e la determinazione con cui hanno riformato l’Australia. Albanese ha ora la possibilità, e il dovere, di raccogliere quella eredità. La vittoria gli ha dato il tempo e lo spazio. Tocca a lui decidere come usarli.