Sradicato dall’amata Capitale e trasferito, ormai da tempo, ad Aosta per motivi disciplinari, Rocco Schiavone non si è mai davvero ambientato nella città d’adozione. Continua a mal sopportarne il rigido clima e la neve che si ostina ad affrontare con i suoi immancabili loden e Clarks. Sempre tormentato, ma anche emotivamente redento, dal ricordo dell’amata moglie Marina che immagina e rimpiange ogni giorno dalla sua tragica scomparsa. Non vede il fantasma di sua moglie, come il suo personaggio televisivo, ma ci parla ancora Marco Giallini: “Quando sto solo e qualcosa non va. Dico: ‘Eh amore mio...’”.
“Alla fine, io sto in lockdown da quando è morta Loredana”. A luglio, sono dieci anni. “Quello è il momento in cui ho deciso di diventare popolare. L’ho deciso proprio, perché sarei uno che s’adagia, sono pigro, ammazza come sono pigro”, dice. “Nel senso che ancora aspetto di giocare con la Roma. Ero arrivato qui, a Tor Lupara, per Loredana. Ci siamo messi in 40 metri, non eravamo abbienti. Ci siamo sposati nel 1993, facevo teatro e altri lavori, però avevo ripreso la scuola, mi ero iscritto a Lettere e a scuola di recitazione. Ero diventato bravo, colto, oltre che bandito”, racconta ancora.
Prima tanto teatro, il cinema è arrivato tardi: primo film a 35 anni, diretto da Marco Risi ne “L’ultimo Capodanno”: “Però sono esploso ancora dopo, a quasi 50 anni, con il Nastro d’argento per ‘Acab’ e la nomination ai David per ‘Posti in piedi in Paradiso’. Prima, quando c’era Loredana, avevo fatto 35 tra film e serie, però ero secondo, terzo attore: se sei primo, i progetti li fanno su di te. Lei ha visto solo l’inizio. Sul primo contratto, legge la ‘rata film’, la prima di 10, ma pensava fosse tutto lì. Dice: solo questo? E io: no, devi mettere un altro zero. Le vennero le lacrime. Bello o no?”.
Ha deciso di diventare popolare solo da vedovo per riempire il tempo e non pensare? “Per dare una possibilità in più ai figli. Dovevo tirarli su come ci eravamo promessi. Lei voleva che facessero il Classico, uno lo fa, l’altro l’ha finito: è una cosa stupenda, chi fa il Classico si riconosce da lontano”.
E Rocco Schiavone? “Non faccio fatica a interpretarlo è quasi una pausa tra un ciak e l’altro perchè mi trovo bene nei suoi panni tanto siamo simili, ovviamente togliendo la parte del poliziotto o le amicizie discutibili. Poi Antonio Manzini è un autore di tale generosità e talento che non ho mai incontrato difficoltà”.
Appunto, quelle amicizie discutibili, quei vizi non propriamente legali e ortodossi, come i suoi metodi d’indagine e il suo linguaggio a dir poco sfrontato, senza limite di turpiloquio e d’intercalare colorito... “Ma Schiavone è sempre quello inventato da Manzini - aggiunge Giallini - e io non vorrei assolutamente fosse diverso. Rocco è fuori dagli schemi ma - puntualizza l’attore trasteverino - ha un senso della giustizia e dell’etica tutto suo, non sempre coincidente con la legge. Ma è un uomo complesso, malinconico, che ci permette di riflettere su temi importanti”. Insomma Rocco non è cambiato, sempre alle prese con i suoi demoni interiori e con la medesima caparbietà da poliziotto rude e implacabile.
Nella quarta stagione, in onda anche in Australia su Rai Italia, insieme ai suoi uomini è impegnato a far luce su due casi particolarmente complessi. Il primo conduce il vicequestore nelle pieghe buie del gioco d’azzardo e il secondo a far luce non solo su un caso frettolosamente etichettato come malasanità, ma anche e soprattutto su una parte di sé che ha per troppo tempo tenuto nascosta e protetta da tutti: quella dei sentimenti. Aggiunge lo scrittore Antonio Manzini: “Ad esempio non pensa mai al suicidio perchè a suo avviso sarebbe come commettere un reato di omicidio in quanto ai danni di una persona depressa e fragile”. A chi gli chiede se nei prossimi libri affronterà il tema della pandemia lo scrittore replica: “No, e non intendo farlo, meglio dimenticare, dicevano che saremmo diventati migliori... Chi? Quando? Dove?”.
Giallini, la sua romanità pensa l’abbia aiutata a creare i suoi personaggi, ha esordito in piccolo ruolo a teatro anche con Arnoldo Foà, di lui che ricordi ha? “Ma a parte che vado fiero della mia romanità e che non ho fatto solo ruoli da romano. Poi dico a un milanese la fareste questa domanda?”. Su Foà: “Lo ricordo che ero ragazzino abitavamo vicini chiedeva il basilico a mia madre, ma non immaginavo chi fosse, poi abbiamo recitato insieme, ma non mi rivolgeva la parola, avevo un ruolo minore. Un giorno è capitato che mi ha incontrato per caso e mi ha invitato a pranzo, in un ristorante cinese, anche lì scena muta, leggeva il quotidiano, ma alla fine mi ha regalato un ritratto mio che mi ha aveva fatto mentre pranzavamo. Questo è tutto”.
A suo parere perché tanto successo per le serie tv del genere investigativo? “Non lo so - risponde Giallini - certo che Schiavone ha una sua cifra non si era mai visto un poliziotto che fuma come un dannato in televisione, detto questo io da ragazzino guardavo gli sceneggiati del commissario Maigret, ma anche quelli italiani, mi piace il giallo, il crimine, l’investigazione. Ma Antonio è tutta un’altra cosa ha del genio, non c’entra nulla la scorrettezza di Schiavone. È molto complesso, si presta anche a diverse letture, descrive molto bene il mondo di oggi, senza ideologie”.