È un arazzo, la sua intera esistenza, finemente intessuto di frammenti di storie, di persone escluse, culture in collisione, esseri umani avvinti, affini. Maria Pallotta-Chiarolli non ha mai distolto lo sguardo dalle ingiustizie aberranti, dalla ricerca di un’inclusione di valori.

Lontana da sempre dai privilegi della gerarchia, ha vissuto le rinunce e le privazioni dei suoi genitori in una terra nuova e sconfinata, ammantati dall’eterna magia dell’esperienza migratoria e dalla percezione comune di non aver mai lasciato il Paese d’origine; oggi, invece, osserva sua figlia riconoscere impressioni e dettagli nel cammino che involontariamente ha saputo indicarle.

“Gli uomini non vogliono che tu abbia un’istruzione: perché se le donne sanno troppo, mettono in discussione ogni decisione”, le diceva sua nonna. Continua, infatti, nonostante il tempo che scorre inesorabile, a porsi domande, “a sostenere, amare, ballare”, tenendo sempre ancorate nella sua mente le immagini dei suoi genitori tormentati dalla stanchezza, ma mai sconfitti.

“Lavoravano al Royal Adelaide Hospital e nel loro unico giorno libero, uscivamo sempre in gita; volevano donarci ogni gioia e non restare a casa a occuparsi delle pulizie domestiche”, mi racconta.

Ci incontriamo in un piccolo bar a Brunswick, mi saluta mostrandomi un sorriso affabile, mentre ripone immediatamente tre romanzi sul tavolo, una piccola parte di un’attività proficua e infaticabile.

Sono Tapestry, il vorticoso intreccio di cinque generazioni di donne e uomini della sua famiglia, Someone You Know – A Friend’s Farewell, la storia di una straordinaria amicizia e di un arrivederci sospirato, Love You Two, che dà voce a chi è alla ricerca disperata del proprio destino.

“Sono nata ad Adelaide, in Australia, ma la Maria che doveva essere, era già venuta al mondo nei piccoli paesi della Regione Campania, in Italia – scrive in Tapestry –; i loro nomi mi erano così familiari. Sono cresciuta come parte di un arazzo, ricco dei colori di tante realtà, intrecciato con i fili di tanti luoghi, spazi e tempi”.

I suoi genitori, infatti, sono originari di Benevento, ma in South Australia sono riusciti a preservare il dialetto tipico della campagna italiana degli anni ’50, a circondarsi di “compaesani”, nonostante il rumore di una società che a volte, o forse molto spesso, può far male.

“Sono cresciuta, nei primi anni della mia infanzia, nel capanno del cortile dei miei zii, quello che qui viene chiamato shed – mi racconta –. La nostra era una famiglia operaia, i miei genitori lavoravano al Royal Adelaide Hospital, mio padre faceva le pulizie, mia mamma serviva il pranzo alla mensa. Eppure, non hanno mai abbandonato i tratti caratteristici della loro cultura d’origine; mia mamma infatti serviva piatti più ricchi alle infermiere perché secondo la sua cultura, ‘erano troppo magre’!”.

“E ovviamente, veniva ripetutamente ripresa dal supervisore. Mio padre, invece, era molto diverso dagli uomini della sua generazione: si dedicava alle pulizie, alla cucina, il che lo rendeva un ottimo marito. Era un uomo gentile, e si lasciava andare spesso al pianto. Quando gridava in casa, nessuno prestava attenzione, quando invece era mia madre a gridare, tutti ritornavano sull’attenti!”.

Di fronte alle difficoltà devianti dell’approcciarsi allo studio senza la conoscenza della lingua inglese, delle immotivate discriminazioni di insegnanti nei confronti di studenti cresciuti in famiglie multiculturali – “Alle elementari, avevamo una maestra di italiano molto arrogante, originaria del Nord Italia, ci chiamava ‘cafoni’ solo perché originari del Sud. Eppure, io e i miei compagni pensavamo di essere italiani, non immaginavamo tali differenze. Io però mi ribellavo e passavo molto tempo a frequentare le lezioni dal corridoio”, mi racconta –, i suoi genitori hanno sempre rappresentato quell’esempio quasi impossibile da ritrovare “tra la loro gente”.

Uno scatto del 1962, la scrittrice Maria Pallotta-Chiarolli da bambina insieme ai suoi genitori ad Adelaide

“Mia madre è sempre stata una grande femminista, fin dagli anni dell’infanzia, veniva rimproverata perché voleva andare in giro in bicicletta da sola! – continua, ridendo –. Alla pubblicazione di Tapestry, i miei genitori hanno ricevuto telefonate minatorie quasi tutti i giorni, nelle librerie il romanzo veniva etichettato come ‘pornografia’, per un paio di righe in cui discuto di sessualità con mia figlia, i famosi ‘compaesani’ dicevano a mia madre che ‘certe storie non si raccontano, si tengono in famiglia’.

“Ma mia mamma non si vergognava, anzi insieme facevamo il giro delle librerie così che potesse esclamare a voce alta, ‘Guardami, sono in copertina!’, mentre mio padre indicava con fierezza il mio libro, sugli scaffali della libreria in ospedale, a tutti i suoi colleghi. Non ho certamente mai dimenticato gli aspetti positivi dell’essere migrante e dell’essere parte di una comunità, come le meravigliose tradizioni ereditate, ma molti valori – in particolare in relazione alle donne, alla sessualità e al cattolicesimo – erano davvero troppo rigidi”.

“E lungo la strada, per difendere la mia attività letteraria, i miei genitori hanno dovuto confrontarsi con gli australiani ‘anglosassoni’, molto spesso omofobi e razzisti, e con gli italiani, perdutamente convinti della Legge della Chiesa”, aggiunge.

Dopo gli anni universitari, Maria Pallotta-Chiarolli è atterrata in una scuola maschile dove ha conosciuto Jon, un uomo all’apparenza arrogante e riservato, eppure semplicemente indifeso; dalla loro straordinaria amicizia, sconvolta da dolori e malelingue, nascerà Someone You Know – A Friend’s Farewell, la prima biografia australiana sull’AIDS.

L’intero ricavato delle vendite è stato donato nel tempo alla Bobby Goldsmith Foundation per persone affette da HIV.

È nel 1993 che la scrittrice e ricercatrice italo-australiana ha deciso di trasferirsi a Melbourne “per scappare da una realtà greve e angosciosa”.

“In Victoria, ho cominciato a mescolarmi con gli italiani e gli attivisti che spendevano le proprie giornate per inseguire il progresso – mi racconta –. Il successo non era sinonimo della casa più grande o della macchina più veloce, o ancora degli abiti costosi indossati dai propri figli; avere successo significava riuscire a dare voce ai cittadini, sostenere le famiglie, la comunità gay e multiculturale”.

Nel corso degli anni, Pallotta-Chiarolli ha ottenuto riconoscimenti nazionali e internazionali come scrittrice, ricercatrice, attivista e consulente in materia di diversità culturale, familiare, sociale e di genere, con un focus specifico sull’adolescenza e sui giovani.

Negli anni ’90, è stata la prima autrice a intraprendere ricerche empiriche e scrivere della diversità sessuale in relazione all’etnia; oggi è membro onorario della Deakin University “per continuare a sostenere colleghi accademici in cerca di supporto e allontanarsi dalle dinamiche malate delle università che si trasformano sempre più in business”.

Tre generazioni di donne, Maria Pallotta-Chiarolli accanto a sua figlia Steph e a sua madre Dora

E mentre riempie le sue giornate con un nuovo progetto sulle popolazioni aborigene dal background familiare italiano e greco, e prende parte al collettivo al femminile di talentuose scrittrici, ‘Ascolta Women’, immagina un futuro in cui i figli di migranti e le ultime generazioni possano comprendere il proprio privilegio e utilizzarlo per segnare un nuovo futuro.

“Nel 1996 ho ricevuto una lettera da George Pell: mi definì ‘dissentatore’ e voleva impedire che continuassi a lavorare nelle scuole. Semplicemente perché avevamo indossato delle fasce arcobaleno alla St Paul’s Cathedral a Melbourne, per protestare simbolicamente contro le sue parole di disgusto nei confronti dei diritti gay – continua –. Ne risi allora e ne rido ancora oggi, considerando ciò che è accaduto e che tutti noi già sapevamo all’epoca”.

“Oggi sono troppe le famiglie privilegiate, che non sanno cosa significhi lottare per una giusta causa; i loro genitori non sono mai stati addetti alle pulizie. Ed ecco, cosa succede in tempi di pandemia: si corre al supermercato a fare scorta di carta igienica, mentre i rifugiati con cui lavoro, mi dicono ridendo, ‘Maria, cosa c’è che non va nelle persone in questo Paese? Noi abbiamo vissuto tre anni in un campo profughi senza carta igienica’”.

“Mi piacerebbe che gli italo-australiani abbiano maggiore voce in capitolo sui diritti delle popolazioni indigene. Mia madre è venuta in questo Paese e aveva paura delle donne aborigene, a causa dei racconti terribili che ascoltava nelle case di cura dove lavorava. Ha dovuto disimparare attraverso me e mia figlia. Ma alziamoci per i diritti delle comunità LGBTQ+, difendiamo i rifugiati, i nuovi migranti. Non lasciamoci andare a quella che definisco ‘amnesia storica’. Lottiamo contro le meschinità”.