BUENOS AIRES – Con un messaggio al Congresso, trasmesso in tv “a reti unificate”, il presidente Javier Milei ha presentato la legge di bilancio per il 2025, dove si conferma la politica di tagli alla spesa pubblica per mantenere l’obiettivo “deficit zero”. Ovvero il fine ultimo della gestione delle finanze pubbliche, secondo la bibbia dei monetaristi.

Su un punto però Milei si è “sbilanciato”: le promesse per il 2025. Inflazione al 18 per cento, dollaro stabile a 1270 pesos e un aumento del Pil del 5 per cento, manco l’Argentina fosse la Cina di inizio 21° secolo.

“L’asse portante di questo bilancio è la prima verità di un’amministrazione pubblica sana, verità che per molto tempo, in Argentina, è stata relegata all’ultima fila: il deficit zero” ha dichiarato.

Il presidente ha poi illustrato la nuova filosofia che guida le scelte del governo in tema di bilancio: “una metodologia che blinda il pareggio indipendentemente dallo scenario economico. Questo significa che, succeda quel succeda a livello macro, la contabilità dello Stato resterà in equilibro”.

Una dottrina che è l’opposto dei principi keynesiani e delle politiche di allargamento monetario seguite dai governi precedenti.

“Il deficit è sempre la conseguenza del pensare, prima, quanto spendere, e poi come finanziare la spesa – ha detto –. Noi faremo il contrario, pensando prima a quanto dobbiamo risparmiare, per poi vedere quanto possiamo spendere”.

Sono tre gli obiettivi prioritario che questa politica vuole raggiungere.

Prima di tutto, assicurare un pareggio di bilancio a tempo indeterminato, senza più ricorrere al debito pubblico e all’emissione di moneta. Poi, obbligare lo Stato a occuparsi di assorbire gli effetti delle perturbazioni nell’economia. Infine, quando i miglioramenti delle finanze pubbliche saranno permanenti, restituire le tasse in eccesso pagate dagli argentini attraverso una riduzione delle stesse.

Il dito puntato è, ancora una volta, sulla “casta” e sulla “compulsione inestinguibile dei politici per la spesa pubblica”. E insiste, Milei, nel suo J’accuse: “Non c’è niente, ma davvero niente, che impoverisca di più i cittadini comuni del disavanzo pubblico. E niente, ma davvero niente, che arricchisca di più i politici del disavanzo”.

Riferendosi al veto posto alla legge sulle pensioni e anticipando quello sui finanziamenti alle università, rincara la dose: “Per questo metteremo il veto su tutti i progetti di legge che attentino al pareggio di bilancio”.

Secondo Milei, lo Stato non è una “bambinaia che deve farsi carico di tutto” e “quando lo Stato si arroga compiti che non sono di sua competenza, finisce per venire meno alle sue responsabilità fondamentali”.

A questo, quindi, e non alla sua austerity, attribuisce “il 50 per cento di poveri, il ritorno dell’analfabetismo, l’aumento della criminalità, uno sistema di distribuzione dell’energia che collassa se fa caldo per 4 giorni di seguito, le forze armate abbandonate e senza capacità di risposta, una giustizia tragicamente lenta e ospedali pubblici senza forniture che non possono curare nessuno… Il compito fondamentale di uno Stato è assicurare la stabilità macroeconomica, la politica estera e l’applicazione della legge… Qualsiasi altra questione di risolve attraverso il mercato”.

Torna insomma il neoliberismo estremo di eredità thatcheriana, la teoria dello Stato minimo e del mercato che si regola da solo

Il presidente rivendica anche il principale risultato di 9 mesi di governo: aver evitato l’iperinflazione “senza avere abbandonato i settori più vulnerabili della società”, dimenticando però i consumi depressi, le bollette impagabili per pensionati e famiglie di classe popolare, i posti di lavoro perduti, le piccole e medie imprese che chiudono. I danni collaterali del rigore: vite umane a perdere.