Tra tutte le tradizioni natalizie, quella del presepe è la più italiana.

Non c’era famiglia immigrata che non ricreasse, l’8 dicembre, la scena della nascita di Gesù in un angolino di casa, con le statuine di gesso, la grotta di cartone, il cielo stellato, la carta stagnola per riprodurre il ruscello e il muschio raccolto nel bosco.

Successivamente, il presepe ha dovuto combattere con l'abitudine nordica dell’albero di Natale, simbolo del ritorno della luce dopo il solstizio d’inverno. Tradizione antichissima e di tutto rispetto, imposta però a livello commerciale.

Il presepe sopravvive forte più che mai a Napoli, dove un’intera strada, San Gregorio Armeno, à occupata dalle botteghe artigiane specializzate nella produzione di capanne, grotte, casette, mulini ad acqua e statuine.

La creatività napoletana affianca ai personaggi tradizionali (i pastori, il fornaio, la venditrice di caldarroste…), figure dell’attualità, come calciatori e politici.

Per il 7 dicembre è stata addirittura organizzata una “Notte Bianca”, con l’apertura notturna delle botteghe, per napoletani e turisti.

Tutto è iniziato nel 1223, esattamente 800 anni fa, a Greccio (Rieti), dove si trova un santuario fondato da San Francesco d’Assisi. Fu lui il primo a creare, il 24 dicembre, una rievocazione vivente della scena della nascita di Gesù.  

La scelta del luogo derivava dal fatto che il signore di Greccio, Giovanni Velita, era un amico di Francesco. Inoltre il santo era reduce da un pellegrinaggio in Palestina e il borgo medievale gli ricordava Betlemme.

Così chiese all’amico Giovanni di individuare un posto, immerso nella natura, che potesse fare da sfondo alla rappresentazione.

Serviva una grotta, dove avrebbe fatto collocare una mangiatoia e condurre un bue e un asinello, animali non menzionati nel racconto dei quattro vangeli, ma presenti nella vita quotidiana dei contadini dell’epoca.

“Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello”: queste le parole di Francesco secondo un biografo dell’epoca.

C’era una famiglia, con un neonato vero, nella rievocazione di Greccio.

“E questo è un aspetto molto interessante perché sottolinea il passaggio dal simbolo al corpo reale – dice Ilaria Sabbatini, storica medievalista, ricercatrice in Paleografia all’Università di Palermo –. Un tema che ci porta lontano, fino alla discussione, interna al cristianesimo, sulla legittimità della rappresentazione del sacro”.

L’idea è coerente con una prassi tipicamente medievale.

“Quella dell’arte e della figurazione come Bibbia dei poveri, Bibbia pauperum – afferma Sabbatini – è una prassi tipicamente medievale”. Catechizzare il popolo, che non sapeva leggere, attraverso storie illustrate della Bibbia e delle vite dei santi: affreschi, quadri, sculture.

Basta pensare al ciclo di affreschi di Giotto nella Basilica superiore di Assisi, dipinti alla fine del ‘200, e dedicati alle opere, la predicazione e i miracoli di San Francesco, morto nel 1226 (uno di essi rappresenta proprio il presepe di Greccio). O a quelli, di poco successivi, della Cappella degli Scrovegni di Padova.

La scena del presepe di Greccio nel ciclo di affreschi di Giotto nella Basilica superiore di Assisi.

Francesco, però, a Greccio introduce una novità: la tenerezza, gli affetti, una madre che stringe al seno un neonato che è davvero suo figlio.

“Questa partecipazione emotiva sentimentale è il grande apporto culturale di Francesco a una religiosità che fino ad allora aveva un forma esclusivamente liturgica”. Basata sulla cerimonia, sul rito, sul simbolo.

La portata rivoluzionaria del presepe di Greccio è tutta qui, nel gioco di sguardi tra una donna e suo figlio, portatore di un messaggio di pace di cui, in questo 2023 che volge al termine, c’è più che mai bisogno.