Una città che è tutto il mondo. Gigi Proietti, figlio della capitale e del teatro, aveva quel senso di romanità che mischia e rigenera, unisce e riassume tenendo insieme il verso più aulico e la battuta fulminante. 

La sua Roma era popolare ma già nobile come del resto le sue origini, nomadi tra la strada più rinascimentale della città e i quartieri più lontani dal centro. “Sono nato in una traversa di via Giulia, una strada bellissima, un tempo era il corso papale, ma a dieci mesi già avevo cambiato casa: ci trasferimmo dietro villa Celimontana, a via dei Santissimi Quattro. Poi sono finito in periferia, al Tufello, in una casa popolare”, scrisse lui stesso in una mini guida di Roma e dei suoi posti del cuore.

Poi il Liceo Augusto a via Appia, dopo le elementari e le medie alla Vittorino da Feltre, e la Capitale notturna dei locali dove, ad adolescenza conclusa, tentava già la strada istrionica e l’urgenza dello spettacolo sebbene iscritto alla facoltà di Giurisprudenza alla Sapienza. Di quei night dove cantava, anche, con malinconia ricordava “non ne è rimasto neanche uno, sono spariti tutti”, ma la voce allenata in quei locali fumosi era già un ferro del mestiere affidabile che lo farà essere persino chansonnier scanzonato e sentimentale all’occorrenza, perchè essere attore è tutto, un po’ come essere romano. 

E tra i posti del rimpianto giovanile, dell’età in cui sperimentava cosa sarebbe stato da grande, Proietti ci metteva non solo le serate con i “fagotti” e la famiglia nelle trattorie dell’Appio Latino, ma anche il Tevere, ci mancherebbe. Ma quel fiume non è quello di adesso, il fiume di allora viveva con Roma ora invece sembra una ferita che stenta a rimarginarsi. 

“Ora sopravvivono, invece, alcuni barconi sul Tevere: mi ricordo quanto erano affollati, ai romani piacevano molto, andavano, prendevano il sole e facevano il bagno. Oggi ce ne sono alcuni che cercano di rivitalizzare quella tradizione, ristoranti e locali anche molto carini, ma un tuffo non si può più fare, chi nuoterebbe mai in quello che un tempo era il “biondo fiume”, si chiedeva ricordando poi l’isola dei romani, cioè Ponza dove aveva casa e li sì che andava a farsi tuffi e bagni, spingendosi col suo gommone fino a Palmarola “per alcuni ancora più bella”. Ma poi, siccome era un attore, la topografia personale iniziava a confondersi con quella artistica, entrambe mappe sentimentali però e sempre, sempre, con la città policentrica e mai rilegata dentro le mura.

E così è dalla periferia che nasceva Proietti, dal Teatro Tenda di piazza Mancini nel 1976, da quel “A me gli occhi please” dove si riversava mezza Roma, ma anche Eduardo De Filippo, Federico Fellini e l’allora sindaco Carlo Giulio Argan. Era il teatro, vero, popolare ma anche colto, da William Shakespeare a Ettore Petrolini. Perchè, artista e artigiano, Proietti mescolava anche il romanesco con i versi, anzi ne faceva poesia e proprio nella sua lingua madre che omaggiava un altro immenso romano, Alberto Sordi che non c’era più.

E sulla linea del tempo il Teatro Tenda, dopo il Brancaccio e il Brancaccino, portava dritto al Globe, fatto dopo la folgorazione del fratello londinese, che sbocciava a Villa Borghese (dove da bimbo andava al Cinema dei Piccoli) e voluto sulla pianta del tempio shakesperiano: senza tetto, tutto in legno, prezzi pop e chi non sta nei palchetti “si deve portare i cuscini”. Una visione, anzi “una mandrakata”, come disse lui stesso (altro posto iconico l’ippodromo di Tor di Valle in “Febbre da cavallo”), che registrava sempre il tutto esaurito e si affidava a nidiate di attori e attrici giovani.

Ma Proietti voleva ancora dare, i suoi progetti non si erano esauriti al Globe. Pensava anche, e come sempre, ai giovani romani. “Voglio mettere in piedi Radio Raccordo Anulare, un progetto che mi frulla in testa da anni. Un’emittente gestita da giovani per tenere collegate e informate tutte le zone della città, specie le periferie: il problema, in una metropoli come la nostra, è la comunicazione. I romani devono conoscersi, non rimanere distanti come isole”, diceva. 

E ancora, per lo strano compleanno in lockdown della Capitale, 21 aprile 2020 in piena clausura causa coronavirus, tornò sulla città stigmatizzando chi descriveva Roma vuota e chiusa come “spettrale”. “Roma è stanca e ha diritto di riposarsi”, scolpì lapidario con quella voce, vissuta ma granitica, che è già un monumento ai Fori Imperiali. La voce di uno di Roma, figlio del mondo.