C’è un punto in cui la politica smette di essere teatro e diventa contabilità civile. Quel punto, per la Coalizione, si chiama “net zero”. Non è una sigla alla moda, non è un tabù ideologico: è una linea di credito con il futuro. Decidere se mantenerla, riscriverla o stracciarla è la prova di maturità che l’opposizione non può più rinviare, pena consegnarsi a una lunga stagione di irrilevanza.
La revisione interna dei Nazionali guidata da Matt

Canavan e Ross Cadell arriverà in riunione di partito, ma non conterrà una modellizzazione economica dei costi di un eventuale addio all’obiettivo 2050. È una scelta politica, certo, ma soprattutto un’assenza di metodo.Quando si propone di cambiare rotta su un impegno, rinunciare a un quadro numerico significa chiedere ai sostenitori di camminare su un ponte senza sapere quanto regge.

Si può sostenere, come fa Canavan, che “il costo di non fare una cosa è evitare il costo di farla”. Ma il Paese ha diritto a sapere quanto costa ogni scenario.

Nel frattempo, intorno, il resto della politica si muove. Il viaggio di Anthony Albanese a Washington ha prodotto una narrazione favorevole sul fronte AUKUS e sui minerali critici. Qui c’è un dato politico che la Coalizione dovrebbe saper maneggiare meglio degli avversari: molte delle conquiste di oggi hanno radici nel lavoro del precedente governo.

Ricordarlo servirebbe non per rivendicare una paternità sterile, ma per consolidare l’identità liberale e aggiornarla rispetto alla nuova competizione energetica e tecnologica. Se l’esecutivo può raccontare una cooperazione con gli Stati Uniti su sottomarini nucleari e filiere di terre rare, è perché l’Australia ha scelto da tempo la traiettoria dell’integrazione strategica e industriale con l’alleato. E questo non esime l’opposizione dal proporre un suo racconto coerente: crescita, sicurezza, affidabilità della rete, non un semplice “no” rituale.

Sul piano interno, l’agenda ambientale del governo si intreccia con la riforma dell’Environment Protection and Biodiversity Conservation Act. Il punto è sottile ma decisivo: rendere più rapido e prevedibile l’iter autorizzativo senza creare nuova burocrazia che trasforma ogni progetto in contenzioso permanente. Impresa e opposizione chiedono chiarezza su poteri, responsabilità e obiettivi. È una domanda legittima.

Ma è altrettanto legittimo aspettarsi dall’opposizione una proposta compiuta, non solo la lista delle obiezioni. Se l’esito della riforma dipenderà da un accordo con la Coalizione, sarà proprio lì che il fronte conservatore potrà trasformare la critica in architettura istituzionale, difendendo la certezza del diritto e gli investimenti in energia, minerali critici, manifattura a basse emissioni.

Dentro la Coalizione, però, le crepe diventano fenditure. L’intervento di Tony Abbott contro il “vincolo” del ‘net zero’, le pressioni di una parte dei liberali per mollare l’àncora del 2050, i sondaggi locali che alimentano il nervosismo, dall’altro lato le posizioni di chi, come il senatore Andrew McLachlan, richiama una cultura conservatrice che non teme la parola “conservazione”. È una dialettica reale, non un dettaglio di corridoio.

Ed è la ragione per cui ogni soluzione di compromesso, come per esempio, tenere l’impegno internazionale e smontare la cornice normativa domestica, rischia di essere letta come un espediente, non come una visione.

Qui sta il bivio politico e culturale. La prima strada è quella del cortocircuito identitario: si sposa il malcontento di breve periodo, si promette di “liberare” l’economia dalle presunte catene del ‘net zero’, si brandisce il carbone come antidoto all’“intermittenza” delle rinnovabili e si rinvia la questione della competitività energetica a un futuro indefinito.

È una via a basso costo retorico, ma ad alto costo industriale. Il mondo con cui commerciamo e da cui investimenti e capitali dipendono si muove, a velocità e con modelli diversi, verso filiere decarbonizzate, elettrificazione di processi e trasporti.

Anche quando le ambizioni climatiche si piegano alla realtà, come suggeriscono analisi più prudenti che arrivano, ad esempio, dall’Europa, la bussola resta puntata sulla sicurezza energetica, sul costo dell’elettricità e sulla stabilità del sistema.

Chi legge queste colonne lo sa perché ne abbiamo scritto spesso: imprese medie e piccole, catene di fornitori, le famiglie che vivono nell’indotto dei distretti manifatturieri non chiedono proclami, chiedono bollette prevedibili e prospettive d’investimento.

La seconda strada è più difficile ma più feconda: ridefinire il ‘net zero’ in chiave conservatrice, come disciplina della transizione anziché come culto ideologico. Significa tre cose concrete.

Per prima cosa è, ovviamente, del tutto legittimo sostenere che il calendario voluto dal governo è forse troppo ambizioso e può produrre strozzature se non accompagnato da infrastrutture, reti e stoccaggi, ma la risposta dovrebbe contemplare un piano alternativo credibile, non mere dichiarazioni d’intenti senza sostanza.

Secondo, è il momento di scegliere una narrazione più ampia: rinnovabili, reti, accumulatori, standard per l’industria, efficienza, idrogeno dove ha senso economico utilizzarlo, cattura del carbonio dove costa meno della delocalizzazione.

Terzo, riportare la discussione su costi e benefici per settore, regione e comunità, con dati pubblici e verificabili. Senza modelli economici, questo modo di fare politica resta puro utilizzo di slogan.

La Coalizione ora si trova davanti a una sfida, trasformare le tensioni interne in opportunità. Partendo proprio dalla richiesta di rigore che viene dai suoi elettori più esigenti.

I nazionali parlano a un’Australia che vive di miniere, agricoltura, logistica. I liberali, come categorie di massima, a una classe borghese che, forse, teme il caos regolatorio più dei costi delle bollette. Tra questi mondi c’è una convergenza possibile: la certezza del quadro, la difesa degli asset produttivi, la spinta all’innovazione che riduce i costi e aumenta la resilienza. Il ‘net zero’ può essere raccontato non come un vincolo morale, ma come una strategia industriale per evitare che altri scrivano le regole al nostro posto.

Sul fronte parlamentare, nelle prossime settimane il destino delle riforme ambientali misurerà la capacità della Coalizione di distinguere le battaglie di principio dalle vittorie pratiche. Se l’opposizione si limiterà a scommettere sull’impasse per mettere in difficoltà il governo, regalerà ai verdi la golden share dell’economia reale.

Se, invece, imporrà un disegno di legge che coniughi tutela ambientale e certezza temporale, con tempi definiti, criteri trasparenti, un’autorità indipendente che istruisce e un ministro che decide assumendosi la responsabilità politica, allora potrà rivendicare di aver salvato investimenti in energia e industria da un labirinto procedurale.

Infine, la dimensione simbolica e di prospettiva. L’elettorato che la Coalizione deve recuperare - nelle aree metropolitane dove le candidature indipendenti “teal” hanno fatto breccia e nei seggi suburbani dove il costo della vita regola l’umore pubblico - è molto sensibile. Una leadership solida dovrà dire cose semplici con parole semplici, dimostrando di avere un piano che abbia tutto in regola, tempi e costi.

Non si tratta di essere soltanto “contro” o “a favore” delle misure di contrasto dei cambiamenti climatici. Si tratta di definire che cosa significa, per una nazione come la nostra, rimanere competitivi mentre il mondo riallinea industrie, alleanze e catene del valore. La Coalizione deve trovare in casa le competenze per farlo. Ma serve una scelta. Una politica che si limita a dire “no” è un mero esercizio di nostalgia. Una politica che dice “sì, ma così”, e lo dimostra con i numeri diventa alternativa di governo.

La politica, alla fine, torna anche ai numeri, se la Coalizione vuole tornare a guidare l’Australia nei prossimi anni faccia una cosa che può essere molto semplice, ma anche molto difficile: metta i numeri sul tavolo, li faccia verificare, spieghi con chiarezza come intende pagare i costi della transizione e quali benefici concreti promette. Tutto il resto è rumore che sa di propaganda.