Sessant’anni fa, alle Olimpiadi di Roma, la nazionale azzurra di pugilato conquistò tre ori, tre argenti e una medaglia di bronzo.
“L’Olimpiade è il punto di arrivo per ogni atleta - ricorda Nino Benvenuti - tutti vogliono prendervi parte e vincere, è il sogno, ma vincere non è facile. Io ho partecipato e ho vinto, mi sono sempre sentito fortunato per questo. Certo mi davano per favorito, avevo già vinto da dilettante due Europei, di sicuro però Giulio Onesti, il presidente della Federazione, ne era più convinto di me”.
“Da ragazzo m’ero fatto un sacco da solo. Vivevamo in campagna, ne ho preso uno e l’ho riempito del frumento che avevo a portata di mano. Lo tenevo appeso alla trave del soffitto in cantina, facevo ginnastica e poi mi allenavo con quell’affare fatto in casa. Io sono un pugilatore”. E’ così che ama chiamarsi, usa un termine ora desueto e che la Treccani definisce: “atleta che pratica il pugilato (anche come esercitazione e competizione atletica nell’antichità)”. Benvenuti, quanto è lontano quel suo pugilato? “Lo è tanto perchè è passato molto tempo. Ma è un modo di combattere che non si dimentica. Eravamo forti, ci seguivano in molti, i palazzetti stracolmi”. E poi ricorda il villaggio olimpico di Roma ‘60: “Facevamo una vita da segregati, ma lo avevamo scelto noi, volevamo vincere”.
Benvenuti dominò i primi turni, vincendo sempre con verdetto unanime: battè il futuro campione d’Europa della categoria Jean Josselin, il futuro campione del mondo dei superwelter Ki-soo Kim, il bulgaro Shishman Mitsev e il britannico James Lloyd. Affrontò in finale il sovietico Jurij Radonjak. Il primo round fu equilibrato. Durante l’intervallo l’allenatore Rea suggerì all’istriano di osare con il sinistro, subito dopo un attacco di destro del sovietico, approfittando della conseguente apertura difensiva dell’avversario. Benvenuti eseguì alla perfezione il suggerimento. Il sovietico andò al tappeto e Nino salì sul più alto gradino del podio. “Lo mandai giù ma vinsi ai punti, non era scontato, in quell’epoca i russi erano considerati imbattibili”. La medaglia gli venne consegnata in una custodia con all’interno una dedica a penna firmata da Jesse Owens.
Nino (Giovanni) Benvenuti, olimpionico pesi welter, campione del mondo nei mediomassimi, co-autore di una storica trilogia con Emile Griffith, (due vittorie e una sconfitta), mollò la boxe dopo la seconda battuta d’arresto patita nel 1971 dall’argentino Carlos Monzon. “A Roma combattevo con la fede di mia mamma legata ai lacci delle scarpette, lei era morta, l’avevo persa già. La prima persona cui pensai mentre mi premiavano fu mio padre Fernando. Lo volli abbracciare subito, sapevo di farlo molto felice”.
Ai giochi romani non era certo solo, l’Italia del pugilato aveva una bella squadra: “Come no, gli altri due ori furono Franco Musso nei pesi piuma e Franco De Piccolo nei massimi, soprattutto questa rimane una vittoria davvero storica, si trattò del primo oro azzurro in questa categoria”. E poi c’era un certo Cassius Clay.“Un campione vero, una persona estremamente intelligente, irraggiungibile come valore assoluto - confessa - lo ammiravo e lo stimavo molto e quando ebbi l’occasione poi di conoscerlo e di frequentarlo mi resi conto che non bastava avere dei muscoli ma era necessario anche, diciamo, il cervello, avere un anima e lui aveva sì il cervello, ma aveva l’anima che lo sosteneva e ne faceva un grande campione”.
A Benvenuti fu assegnata anche la Coppa Val Barker, riconoscimento per il miglior pugile del torneo olimpico, e in molti davano per scontato sarebbe invece stata data al futuro Muhammad Ali: “Qualcuno dice ancora che la strappai a lui, ma io non ho strappato proprio un bel niente, avrebbe potuto vincerla lui, certo, ma hanno ritenuto che la meritassi io e, posso dire che è uno dei riconoscimenti più importanti della mia carriera sul ring”.
Fino ad allora aveva combattuto nella categoria dei superwelter, ma per Roma ‘60 gli fu chiesto di cambiare e passare ai welter, e per cercare la vittoria si decise che dovesse perdere 4 chili: “Col senno di poi fu una buona scelta, ma l’estate quell’anno era molto calda e io che ero sempre stato 71 chili dovetti scendere a 67, non fu una passeggiata”. Poi divenne professionista, la sua carriera decollò, salì di categoria, conquistò il mondiale più di una volta: “Vero, ma ho sempre pensato che il titolo mondiale prima o poi arriva sempre qualcuno che te lo porta via, un oro olimpico no. Nessuno potrà mai portarmelo via”.