Si intitola “Il poeta che non sa parlare” l’ultimo lavoro di Nino D’Angelo, così come lo definì la maestra ai tempi delle elementari, che è anche il titolo di un romanzo. Forse Nino D’Angelo per troppo tempo si è (o l’hanno) “nascosto” dietro alla figura dello scugnizzo napoletano che riscatta attraverso la musica in dialetto la propria difficile condizione; rimanendo un uomo di strada qualunque con in tasca una bella voce e qualche intento romantico, da poeta, appunto.
Ma la verità, siamo sicuri già da diversi decenni, è tutt’altra; e questo disco non solo la conferma, ma proprio la certifica: D’Angelo è un poeta e sa pure parlare, anzi, è capace di pubblicare un lavoro musicalmente articolato, di grande spessore, di estrema raffinatezza, da cantautore puro e maturo.
Forse è lo stesso largo pubblico che, magari per pigrizia, lo ha incasellato in quella figura cinematografica degli anni ‘80 e lì lo ha lasciato e lì pretende di ritrovarlo, a prescindere dalla sua attività artistica, che nel frattempo si è impreziosita, forte di un dinamismo irrefrenabile, la continua necessità di comunicare la propria visione e la capacità di farlo senza snaturarsi mai. “Il poeta che non sa parlare” è un’opera intensa che ci restituisce, nuovamente, uno dei personaggi dello showbiz più interessanti della nostra epoca.
“In questo momento difficile per fare questo disco abbiamo lavorato tanto. Fare un disco con la provvisorietà accanto non è facile. Ho pensato: chissà se la gente è pronta per ascoltare un disco. Perché la gente ha tanti problemi e più problemi c’ha meno tempo ha per consolarsi un po’, per ascoltare la musica… ho pensato a loro. Però poi il pubblico mi ha smentito, perché erano quattro anni che non uscivo con un disco, quindi c’è stata una grande risposta”.
È un disco molto poetico, ma la discografia italiana è ancora un luogo adatto per la poesia? “La discografia non vede più i versi delle canzoni, vede i numeri. È cambiato il linguaggio, una volta si faceva attenzione alle belle canzoni, oggi no, oggi siamo tutti numeri di catalogo, prendono un nome e controllano quante visualizzazioni, non dischi, visualizzazioni fai. È diventato un mercato impuro di visualizzazioni, anche perché ormai la gente le visualizzazioni se le compra”.
“Io sono un venditore di emozioni, è questo quello che siamo noi che scriviamo canzoni, finchè farò questo mestiere pensando di essere un venditore di emozioni potrò scrivere ancora qualche bella canzone, sennò, se devo fare i numeri, ho sbagliato tutto”.
In realtà D’Angelo i numeri li ha fatti eccome… “Si, li ho fatti negli anni ‘80, ma li vorrei fare anche adesso. Una bella canzone potrebbe farmi fare i numeri, no? Però non vorrei essere più considerato col caschetto biondo in testa, vorrei ricevere i complimenti per aver fatto un bel disco. Uno che sta un anno in studio di registrazione per fare un disco, poi è una bella soddisfazione se riceve i complimenti”.
Ha una carriera molto lunga, che non è una cosa facile da mantenere, cantando in dialetto napoletano tra l’altro. “Io mi sono sentito sempre un po’ fuori dal mercato. Un po’ mi hanno messo, un po’ mi ci sono pure messo io; negli anni ‘80 mi mettevano fuori perché vendevo troppi dischi, al contrario, avevano ghettizzato il genere che facevo io, come se non facesse parte della musica. Io invece facevo 20/25 film e per me era promozione, perché non mi facevano fare tanta televisione, mi consideravano un fenomeno locale, loro dicevano napoletano, ma io invece rappresentavo tutto il sud, vendevo tanti dischi in Sicilia, in Puglia, non solo a Napoli”.
E oggi, invece? “Non me ne frega niente, perché finalmente posso cantare quello che voglio io, sono il produttore di me stesso, ormai la mia casa discografica sono io, io faccio tutto, mi assumo tutta la responsabilità. Ma quando sei un cantante che deve fare solo numeri la devi dare qualcosa al pubblico, perché se vuoi fare numeri devi fare quello che ti dice il pubblico, non hai la libertà di fare quello che vuoi tu. Quand’ero ragazzo facevamo i dischi e pensavamo “manca una canzone sulla scuola” e la facevamo, oggi no, prendo carta e penna e se voglio parlare di questo momento ne parlo, se voglio dedicare una canzone a mia moglie gliela dedico, non c’è nessuno che mi dice “questo si e questo no”. Le canzoni di oggi mi appartengono di più, quelle degli anni ‘80 appartengono più al pubblico, perché ero ragazzino, oggi le mie canzoni vengono da dentro”.
Ma quando ha scoperto di essere il mito Nino D’Angelo? C’è un momento particolare in cui si è accorto che qualcosa era cambiato? “Io posso dire qual è il momento in cui mi sono accorto di aver risolto tutti i problemi. Una mattina mi sono svegliato e c’era mia moglie che stava facendo i servizi di casa e aveva addosso un jeans e una maglietta, io la guardai e scrissi ‘Nu jeans e ‘na maglietta’”. Poi le dissi: ‘Sei proprio una donna fortunata, hai sposato un uomo ricco’, anche se io allora non tenevo una lira ancora, le dissi: ‘Abbiamo risolto tutti i problemi della nostra vita’. Avevo indovinato la canzone e così è stato,‘‘Nu jeans e ‘na maglietta” ha risolto tutta la mia vita”.