Nel nostro disperato bisogno di punti di riferimento siamo sempre alla ricerca di eroi, di superuomini, di figure ideali che possano salvarci, perché in fondo noi, con i nostri piccoli problemi, con le nostre paure, ci sentiamo impotenti. E non ci accorgiamo che il più delle volte questi pensieri ci sono autoindotti da tutta una retorica, come quella dei supereroi che combattono per noi, per difendere le nostre libertà e i nostri privilegi, che ci adagiamo, cullati dalle nostre insicurezze. Tanto da perdere anche la voglia di provarci.

Invece, ci basterebbe recuperare un po’ di consapevolezza, di senso della realtà, per accorgerci che sì, gli eroi esistono davvero, ma sono uomini tali e quali a noi, con le loro paure e le loro insicurezze, e che semplicemente hanno trovato dentro loro stessi, non tanto un superpotere, quanto piuttosto il coraggio di superarle. Alle volte questo coraggio non è un atto di eroismo, anche se poi lo diventa, ma molto più umanamente una spinta a reagire alla condizione di indifferenza in cui le nostre debolezze di uomini ci gettano. Altre volte, più semplicemente, quel coraggio lo si trova perché la vita, nelle sue imperscrutabili giravolte, ci mette davanti ad eventi più grandi di noi e ci pone davanti ad un bivio. è quello il momento in cui, compiendo un passo carico di paura e sofferenza, non si torna più indietro.

Quando lo guardi negli occhi, Nicola Nicolaci, nome di battaglia, “Lampo”, ti sembra per qualche istante di poterla vedere tutta quella sofferenza, quella paura, quella difficoltà propria di un uomo che si è trovato nel bel mezzo di eventi storici molto più grandi di lui, ma non si è perso d’animo e ha saputo compiere scelte complicate, vivendole fino in fondo. Altre volte, fissandolo, percepisci invece determinazione e orgoglio e capisci che senza la sofferenza e senza i sacrifici, neanche quell’orgoglio e quella determinazione sarebbero stati possibili. Altre volte ancora, nelle sue espressioni, nei suoi modi di parlare, nella profondità del suo sguardo, ti pare di osservare lo scorrere del tempo. Non il tempo nel senso di passato, presente e futuro, ma il tempo nella sua essenza. Quel tempo che divide le generazioni non contando gli anni trascorsi, ma attraverso i gesti, le parole, il modo di esprimersi, il modo di guardare il mondo e concepire le relazioni tra gli uomini. Quel tempo che, in uno sguardo, racchiude il giovane e l’uomo maturo, il fiero combattente e l’orgoglio umile del contadino, tutti insieme parte di un’unica vita, di un solo balenio della pupilla.

Quando, nella dolorosa giornata dell’8 settembre 1943, l’esercito italiano, composto da migliaia e migliaia di giovani strappati alle proprie case e alle proprie vite, venne lasciato a se stesso in balia del nemico e sbandò nell’incertezza, Nicola si trovava molto lontano dalla sua casa e dai suoi campi in Calabria, dove era cresciuto. Il suo reparto, schierato in Piemonte, si dissolse all’improvviso e, senza nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo, a tutti parve che fosse forse giunta l’ora di tornarsene semplicemente a casa.
Ma come si fa a tornare a casa con la pancia vuota e i tedeschi che se ti prendono ti spediscono, o di nuovo al fronte a combattere una guerra non si sa più per chi, o peggio, direttamente in Germania, a morire di fame in un campo di concentramento? Meglio allora trovare un posto sicuro nel quale attendere che arrivi un momento migliore per prendere la via di casa. E, intanto, sopravvivere come si può. Ma la vita, a volte, non resta ad aspettare e basta. Ti rincorre e ti spinge verso scelte che, tuo malgrado, ti cambieranno per sempre. Questa è la storia di una di quelle scelte, raccontata dalla viva voce di chi l’ha compiuta.

“Sono nato il 16 novembre 1921 a Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria. Prima del servizio militare facevo il contadino, nei campi di famiglia, poi nel ‘41 sono stato chiamato militare e spedito in Piemonte, a Torino. L’8 settembre del ‘43, quando l’esercito italiano si sbandò, con un altro compagno della mia terra decidemmo di scappare, altrimenti i tedeschi ci avrebbero preso e portato prigionieri in Germania. Vivemmo da sbandati per circa un mese, dormendo in rifugi di fortuna e mangiando quello che trovavamo. Poi, i primi di ottobre, trovammo una famiglia che ci prese con sé. Cercavamo pane e lavoro. Ci chiesero: ‘Avete fame?’. Ci vennero gli occhi lucidi. Ci portarono un pezzo di pane, un fiasco di vino e ci dissero: ‘Per companatico prendete dell’uva dalla vigna’. Mangiammo. Dopo vennero da noi e ci chiesero: ‘Avete voglia di lavorare?’. ‘Si’, rispondemmo. ‘Allora domani al mattino cominciamo a vendemmiare’, ci dissero.

Quella sera dormimmo nei campi dentro una baracca e il mattino seguente cominciammo a lavorare nella vigna. Eravamo due calabresi. Ci mettemmo uno in un filare, uno in un altro. Zitti, per non parlare dialetto, perché eravamo in Piemonte e non sapevamo chi fossero le altre persone che lavoravano con noi. Sarebbero potuti esserci dei fascisti che ci avrebbero denunciato come disertori. In silenzio, quindi, lavorammo tutta la mattinata. Quando arrivò mezzogiorno ci dissero: ‘Nduma a mangé’. Difficile descrivere la nostra felicità a quelle parole straniere che capimmo benissimo. Ci portarono ad un tavolo e trovammo un po’ di polenta e della ‘bagna cauda’. Eravamo contenti e così lavorammo per dodici giorni. Alla fine dei dodici giorni, quando completammo la vendemmia vennero da noi e ci dissero: ‘Adesso non c’è più lavoro’. Ma ci permisero di restare.

Tutte le mattine io mi alzavo, nella cascina c’erano una vacca e un paio di buoi, e mi prendevo cura degli animali. Mi davo da fare. Il mio compagno invece era un sarto, era di paese e non capiva molto di campagna. Allora il fattore venne, ci guardò, e indicando me disse: “Per te c’è un po’ di lavoro”. Guardando l’altro disse: “Per te non c’è niente”. Però ci permise di dormire entrambi nel fienile, sulla paglia. E così io durante il giorno lavoravo, mentre l’altro andava in giro. Dove, io non lo so.

Una notte, mentre lavoravo al vino nelle cantine, sentimmo una pattuglia di tedeschi e fascisti che si avvicinava alla cascina. Io mi nascosi subito dietro la botte. Entrarono, ma non videro niente e se ne andarono. Quella fu solo la prima volta. La seconda volta tornarono che stavo mangiando seduto al tavolo. Sentii il cane abbaiare, mi affacciai e una ragazza venne da me e mi disse: ‘Stanno venendo i fascisti’. Mi nascosi dentro la ciminiera del camino. Ero snello, ci entrai velocemente. ‘Dov’è lo sbandato di guerra?’ Chiesero entrando. ‘Qui non c’è nessuno, risposero le persone che mi avevano dato ospitalità’. Mi salvarono. E quelli se ne andarono di nuovo.
La terza volta vennero di notte.  Circondarono l’abitato e suonarono il campanello. Io in quel tempo dormivo dentro casa, non più nel pagliaio. Con me c’era un altro ragazzo; si affaccia, vede la casa circondata e da sotto i fascisti gli dicono: ‘Scendi e apri’. Mentre lui scendeva ad aprire io salii in soffitta e da lì passai nel pagliaio, nascondendomi dentro la paglia. I fascisti entrarono, controllarono tutte le stanze e non trovarono niente. Allora uscirono, vennero nel pagliaio e con le baionette innestate cominciarono a colpire la paglia per setacciarla. Mi feci piccolo piccolo, trattenni il fiato, e non mi trovarono. La mattina dopo capii che non potevo più restare e partii.
Si raccontava dei partigiani che combattevano contro i tedeschi occupanti e così pensai di andare in montagna per unirmi a loro. Cominciai a camminare diretto verso le montagne. Si sapeva, girava voce di dove fossero. Incontrai una famiglia e gli dissi che facevo parte dei partigiani ma ero rimasto indietro perché ero malato. Non gli potevo dire che li cercavo, altrimenti avrebbero potuto pensare che io fossi una spia dei fascisti. Domandando, domandando riuscii alla fine a raggiungere il comando della della 78esima brigata, nona divisione d’assalto Garibaldi, guidata dal comandante Giovanni Rocca, nome di battaglia, “Primo”. Quando arrivai mi interrogarono. Gli raccontai tutta la mia storia. Mi dissero: ‘Noi ti armiamo, ma se ripieghi in combattimento sarai fucilato alla schiena’. E allora capii che o avevo paura o non avevo paura, dovevo combattere, altrimenti mi avrebbero fucilato alla schiena. Iniziarono così i miei venti mesi di lotta partigiana sulle montagne delle Langhe, nel territorio di Asti.

Delle morti, della guerra, che ho visto con i miei occhi non amo parlare. Ricordo la paura, tanta, a volte la fame, brutta. Come brutta fu la guerra di quei mesi dolorosi, soprattutto tra italiani.

Poi finalmente venne il 25 aprile. Mi trovavo ad Asti. Quando entrammo in città i tedeschi erano già scappati, i fascisti cambiarono velocemente bandiera. Ce n’erano tanti ancora di fascisti, in tanti cambiarono bandiera in un giorno, per non farsi fucilare. Restammo per tutto il mese di maggio a disposizione del comando alleato dell’VIII e della V armata, che avevano preso possesso della città. Alla fine di maggio, la guerra era praticamente finita. Ci fecero così smobilitare e ci mandarono a casa. Ci tolsero tutte le nostre armi.
E fu così che me ne tornai in Calabria. Da lì nel 1964 mi trasferii in Australia e continuai a lavorare la terra come mi aveva insegnato mio padre. Decisi di partire per lavoro e qui ora ho la mia famiglia, ma la cittadinanza australiana non l’ho mai voluta, perché sono italiano. Io penso: ‘Se voi siete figli di vostro padre, perché dovreste chiamare padre qualcun altro? La mia patria è l’Italia e io ho combattuto per la sua libertà. Resterò solo e per sempre italiano’.

Parola di Nicola Nicolaci, partigiano, medaglia d’oro al valor militare. Nome di battaglia: “Lampo”.