RENNES - Negli ultimi mesi, Venezia è tornata al centro del dibattito internazionale, non tanto per la sua fragile bellezza, quanto per la spettacolarizzazione che ne alimenta l’immagine: emblematica la vicenda del matrimonio di Jeff Bezos, che ha riacceso la polemica su una città sempre più ridotta a scenario da consumare.

È in questo contesto di over-tourism e mercificazione dello spazio urbano che si inserisce il progetto Venezia anamorfica di Fabrizio Uliana, un racconto personale, fortemente critico, ma anche collettivo. All’abbazia di Saint-Jacut-de-la-Mer, in Bretagna, si conclude domani (mercoledì, 20 agosto) la mostra fotografica che raccoglie il frutto di un lavoro nato dopo l’acqua alta eccezionale del 12 novembre 2019, quando la marea raggiunse un metro e novanta, travolgendo la città e costringendo l’autore a rivedere il suo legame con essa.

Autoritratto di Fabrizio Uliana, autore della mostra fotografica Venezia anamorfica.

“Quella notte fu terribile. Persi libri e oggetti, e per settimane la città divenne invivibile. Da lì maturò la decisione di lasciare Venezia”, racconta Uliana, che dopo venticinque anni trascorsi nella laguna si è trasferito in Francia. Nelle immagini di Venezia anamorfica, la città non è mai quella consueta, turistica, colma di folle: è, piuttosto, un luogo rarefatto, deformato, a tratti irriconoscibile, colto nella sua essenza sfuggente. “Non ho mai fotografato la folla, volevo una Venezia diversa, quasi deserta, lontana dalla cartolina” spiega l’autore.

Il suo sguardo prende forma attraverso una scelta tecnica precisa: l’uso dello smartphone in modalità panorama, forzata fino a stravolgerne il funzionamento. Invece di seguire la linea retta prevista dal dispositivo, Uliana muove la mano in modo ondulatorio, circolare, meditativo. “Ho fatto impazzire la macchina, e da lì sono nate immagini deformate e sovrapposte, che restituiscono una Venezia diversa, intima e visionaria”.

Isola di Burano - Casa di Bepi.

La scelta dello smartphone, strumento quotidiano e spesso svalutato in ambito artistico, è anch’essa significativa: se viviamo in un’epoca di “post-fotografia”, come osserva Uliana, e persino di “post-post-fotografia” segnata dall’intelligenza artificiale, allora forzare un dispositivo comune diventa un modo per rivendicare la libertà dello sguardo.

Non l’obbedienza all’automatismo tecnico, ma l’errore volontario, il cortocircuito, l’imperfezione come linguaggio. Le sue fotografie, stampate in fine art nel formato 60x80 cm, aprono spazi di percezione instabile, in cui il visitatore è chiamato a “vedere ciò che non esiste”. Calli, campi e facciate oscillano e si moltiplicano, rivelando insieme bellezza e inquietudine. “C’è un messaggio d’amore, perché le immagini esprimono vitalità, ma anche un’angoscia per il futuro della città. Alcune foto sono volutamente catastrofiche, altre recano simboli di resistenza, come i drappi ‘No grandi navi’”, osserva l’autore.

In questo intreccio di memoria e denuncia, Venezia diventa un corpo in metamorfosi, fragile e insieme vitale, che si sottrae alle definizioni univoche. Lontano dalle celebrazioni spettacolari che ne fanno un set globale, Uliana la racconta come una città vissuta e perduta, amata e sofferta, continuamente a rischio di dissoluzione.

A questa ricerca si affianca il volume Venezia anamorfica / Venise anamorphique, pubblicato dall’editore Escourbiac in edizione limitata, con contributi di Carlo Chiapponi, Frédéric Cossutta e Dominique Maingueneau, che riflettono rispettivamente sul punto di vista mobile nella fotografia contemporanea, sull’interpretazione filosofica delle immagini e sulla decostruzione dell’estetica veneziana.

Isola della Giudecca - Omaggio a Magritte.

Se l’acqua alta del 2019 ha segnato per Uliana la fine di un’esperienza di vita a Venezia, il progetto rappresenta la possibilità di un nuovo dialogo con la città, capace di guardarla non come un monumento cristallizzato o una scenografia per ricchi eventi privati, ma come un organismo in perenne trasformazione.

“Io ho un rapporto di amore e odio con Venezia. Questo progetto è stato il mio modo di restare in dialogo con lei, di continuare a parlarle anche da lontano”, conclude Uliana. E, in effetti, nelle sue fotografie, la città si fa interlocutrice, specchio e fantasma, immagine che si dissolve e insieme resiste, come se soltanto deformandosi potesse ancora raccontare la propria verità.