Tre anni fa avevano titolato “inizia una nuova era” raccontando la vittoria di Anthony Albanese contro Scott Morrison, quest’anno possiamo tranquillamente confermare che la nuova era esiste davvero perché il primo ministro in carica non solo è stato confermato, ma ha ottenuto una vittoria senza precedenti, superando successi di entità storica come quelli di Bob Hawke e Kevin Rudd.
Albanese ha stravinto le elezioni federali entrando nell’Olimpo laburista: non solo ha eguagliato le vittorie consecutive che erano riusciti a ottenere solo due leader come Gough Whitlam e Bob Hawke, ma ha sbaragliato il campo, infliggendo alla Coalizione la più pesante sconfitta della sua storia, ponendo fine alla carriera politica del leader dell’opposizione Peter Dutton, sconfitto anche nel suo seggio di Dickson, in Queensland.
I precedenti del 2019, quando Bill Shorten aveva perso le elezioni che era ‘impossibile perdere’ regalando a Morrison il famoso ‘miracolo’, avevano insegnato un po’ a tutti la massima prudenza e qualche dubbio extra sui sondaggi che continuavano ad indicare la conferma di Albanese: la vittoria c’è stata, ma nessuno si aspettava un’ondata laburista di tali proporzioni, capace di spazzare via l’opposizione in tutti gli Stati, oltre che mettere alle corde i verdi, aggrappati all’ultimo voto per cercare di mantenere qualcuno nella Camera dei deputati, compreso lo stesso leader Adam Bandt.
Vittoria a mani basse di Albanese e conferma della tendenza ‘teal’, con la squadra di Simon Holmes à Court, che non solo ha difeso tutti i seggi che aveva conquistato nel 2022, ma potrebbe addirittura allargare le sue fila se Nicolette Boele riuscirà a strappare il collegio di Bradifield (a Sydney) ai liberali, in corsa con Gisele Kapterian.
Quella di sabato (e dei giorni precedenti, dato che tra voti anticipati e postali oltre 8 milioni di australiani nel giorno delle urne avevano già votato) è stata una sentenza inequivocabile, soprattutto su una campagna che più deludente non avrebbe potuto essere per la Coalizione che, secondo i rilevamenti demoscopici, era partita quasi spalla a spalla con il governo dai blocchi di partenza.
Poi, come è stato scritto a più riprese, il nulla o quasi in fatto di programmi ben articolati, con la zavorra del nucleare: un’idea mai adeguatamente sviluppata in modo da diventare una vera credibile proposta. Gettata così nella mischia delle possibili soluzioni del caro energia, era impossibile che potesse ‘aiutare’ la causa liberale: meriti, se c’erano, mai spiegati e, soprattutto, nessuna reale convinzione e solo qualche munizione extra per il governo su costi, tempi, fattibilità e vantaggi.
Ora, con l’immancabile senno del poi che permette di non sbagliare di una virgola, un po’ tutti potranno dire: era ovvio che Albanese sarebbe stato confermato.
Naturalmente non è vero, dato che anche gli esperti più esperti - nei vari studi televisivi nelle dirette dello scrutinio al fischio finale della chiusura dei seggi (differenziata, dati i tre diversi fusi orari dell’Australia, con il grande ritardo del Western Australia entrato in scena quando i giochi erano già praticamente fatti) -, ancora parlavano della possibilità di un governo di minoranza, ampiamente smentito nel giro di un paio d’ore.
Poi la valanga ‘rossa’ (solo in riferimento ai colori delle ‘maglie’ delle due squadre) ha cominciato a crescere di intensità, specie in Queensland e in Tasmania, travolgendo personaggi di primissimo piano come lo stesso Dutton, costretto alla resa, e a un prematuro addio alla politica, dal successo della candidata laburistai Ali France. Ma la sorpresa più sorpresa, forse, è arrivata dal Victoria, dato il clima di grande insoddisfazione che si respira nei confronti del governo statale.
Quindi, dopo Albanese, una delle più felici ‘colleghe’ di partito, sarà senz’altro la premier Jacinta Allan perché nello Stato dove, secondo i sondaggi, gli elettori non aspettavano altro che la possibilità di esprimere la loro frustrazione, non c’è stata alcuna ‘punizione’: evidentemente, hanno saputo resistere alla presunta tentazione (o hanno saputo differenziare nettamente tra governi statale e federale) e hanno spento le speranze liberali di conquistare i seggi di Aston, Chisolm e McEwen perdendo addirittura (se le previsioni saranno confermate) quelli di Casey, Menzies e Deakin.
Un ko che sicuramente frenerà gli entusiasmi del leader dell’opposizione statale Brad Battin, ma anche di chi stava preparando (in caso di forte arretramento laburista nello Stato in questione) un cambio al vertice, con il ministro dell’Istruzione Ben Carroll già ben posizionato per lanciare la sfida alla premier Allen.
Albanese ha stravinto migliorando il voto diretto del suo partito (circa il 35%) dopo i valori minimi di consensi del 2022 (32,5%): ma una volta distribuite le preferenze è destinato ad ottenere il secondo o addirittura il migliore risultato di sempre. Perché? Per una serie di motivi, ovviamente oggi più chiari di qualche giorno fa, partendo da fatto che il governo un’agenda, seppur senza grandi ambizioni, l’aveva. Un programma politico all’insegna della continuità, ma con uno sguardo rivolto verso il futuro e le assicurazioni, da parte di un primo ministro - che mai come in questa occasione ha dimostrato il ‘presidenzialismo’ delle campagne elettorali australiane -, ha sempre parlato al positivo, dopo la bufera inflazionistica che ha caratterizzato il suo primo mandato e le indubbie tensioni, che tutti conosciamo, sul palcoscenico internazionale (Ucraina, Cina, Israele, Stati Uniti tra Trump e dazi vari).
La seconda ragione è senza dubbio targata Dutton, un po’ a livello personale (non è mai stato un leader particolarmente popolare), ma soprattutto a livello di offerta, al meglio frammentata, più concretamente semplicemente inesistente come strategia d’assieme per proporre una reale alternativa di governo. Terza componente della maxi-vittoria laburista e la maxi-sconfitta liberale, l’effetto Trump.
Sul sottofondo della campagna, ma comunque una variante influente perché l’Australia, per fortuna, non è l’America e Dutton non è mai riuscito appieno ad evitare qualche paragone di troppo con i repubblicani americani e qualche sfortunato esempio di minime similitudini con la nuova amministrazione, tipo: una massiccia riduzione del settore pubblico, i tagli dell’immigrazione (con espulsioni di ‘indesiderabili’) senza un piano ben motivato e spiegato, qualche puntata populista di troppo (con i laburisti che non hanno abboccato) su bandiere alle conferenze stampa e i rituali riconoscimenti delle popolazioni indigene prima di eventi pubblici, oltre all’incremento, vicino alle aspettative di Washington, delle spese nel campo della Difesa. Un’iniziativa quest’ultima con una certa validità, ma politicamente mal sfruttata essendo stata annunciata solo a pochi giorni dalle urne.
Secondo mandato consecutivo per un primo ministro come non succedeva dai tempi di John Howard (elezioni del 2001); secondo mandato con promessa da parte del ministro del Tesoro, Jim Chalmers - che ha attribuito il merito della vittoria soprattutto alla tenacia, alla qualità, alla capacità, alla determinazione e alle convinzioni di Albanese -, che permetterà al governo, grazie all’ampia maggioranza accordata dagli elettori, di passare ad una seconda fase di crescita, grazie ad un rilancio della produttività.
Il primo mandato all’insegna del contenimento dell’inflazione, ha detto ieri Chalmers, il secondo con l’obiettivo principale di sostenere l’espansione economica. La nuova era, iniziata nel 2022, prende quindi consistenza e, grazie al successo ben oltre le previsioni di sabato, più di qualcuno in casa laburista ha già cominciato a pensare di poter fare progetti ancora a più lunga scadenza, dato che il vantaggio accumulato crea parecchio ottimismo anche per un terzo mandato.