BUENOS AIRES – Un Paese attraente “per la sua stranezza” e una crisi di rappresentanza. Un dilemma economico che non si sa ancora con certezza come verrà risolto.

Così il giornalista e storico Carlos Pagni descrive la situazione argentina, in occasione del primo Aperitivo Politico organizzato dal Círculo Italiano di Buenos Aires nella sua sede di Libertad 1264. Le date dei prossimi incontri non sono ancora state fissate.

“Il fenomeno che interessa la vita pubblica in Argentina riguarda anche molte democrazie dell’Occidente: c’è una crisi di rappresentanza – ha detto Pagni –. Ci sono tensioni, l’impossibilità di mettersi d’accordo”.

Non è certo la prima volta. Dal primo colpo di Stato del 1930, contro l’allora presidente Hipólito Yrigoyen (da molti storici definito un “golpe dall’odore di petrolio”, perché avvenuto nel bel mezzo del dibattito sulla legge di nazionalizzazione del petrolio proposta dal governo), fino all’ultimo, del 1976, queste crisi sono state “risolte” attraverso rotture istituzionali, assalti al potere da parte dei militari e di settori della società civile che imponevano le proprie regole.

“Per fortuna siamo guariti da quella ‘malattia’ e possiamo risolvere i conflitti tra politica e società in un altro modo, all’interno del quadro istituzionale – spiega Pagni –. Questa è stata la grande novità del 2001, la crisi che ha preceduto quella attuale”. La crisi del corralito, del crollo del regime monetario e di cambio. Il momento in cui la classe media e la classe popolare erano unite dallo stesso slogan: “Cacciateli via tutti”.

Con il crollo e la riconfigurazione del radicalismo, il partito dei settori medi per oltre un secolo, sono emersi due nuovi attori politici.

Da una parte il kirchnerismo, nuova faccia del peronismo dopo la presidenza di Eduardo Duhalde. “Con un programma e un modo di interpretare la vita sociale e la politica che convoca una parte importante della società – spiega Pagni –. Questo gli ha dato la possibilità di vincere più volte le elezioni e di legittimarsi come partito e come movimento politico”.

Sull’altro versante politico, sorge il macrismo. Con Elisa Carrió, che appare come uno spin off del radicalismo, e Mauricio Macri, emanazione del mondo degli affari e del calcio. Con loro nasce il Pro, che diventa una nuova coalizione: prima Cambiemos e poi Juntos por el Cambio (Insieme per il cambiamento). “In questa formazione anche la classe media ha trovato strumenti per intervenire nel processo politico” spiega il giornalista.

Secondo Pagni questo “esperimento” ha funzionato fino alla metà del 2020, il primo anno della pandemia, quando i sondaggi d’opinione hanno iniziato a mostrare che la capacità di rappresentanza di questi attori politici cominciava a diminuire.

Nelle elezioni primarie del 2019, Cambiemos e kirchnerismo hanno ottenuto insieme il 90 per cento dei voti. “Il che spiega perché dopo la crisi del 2001, e fino al 2019, l’Argentina ha avuto una formula politica bipartitica – dice –. Ma nel 2023, sommati, sono arrivati al 50 per cento. Hanno perso il 40 per cento della rappresentanza”.

Il giornalista si è interrogato sui motivi. “Forse perché la grieta, cioè la polarizzazione della politica, ha smesso di funzionare – dice il giornalista –. La grieta va intesa come funzionamento della società in cui un settore pensa che la causa dei suoi problemi sia dell’altro partito e viceversa, cosa che si verifica in molti Paesi, non solo l’Argentina”. E lo sguardo va inevitabilmente agli Stati Uniti, alle dinamiche tra il Partito Democratico e Repubblicano, in chiusura della campagna elettorale per la successione di Joe Biden alle presidenziali.

Tra le cause della crisi di rappresentatività, Pagni indica la parallela crisi del mondo del lavoro. O meglio, del lavoro visto non solo come un mezzo per guadagnare un reddito, ma anche come una forma di inserimento nella vita sociale, un modo per essere riconosciuti e avere autostima. “Un’istituzione che organizza la vita collettiva insieme con la vita individuale e produce emozioni che vanno oltre l’aspetto economico. Incide molto sulla soggettività” spiega.

Allo stesso tempo, sostiene Pagni con dati alla mano, “è emerso un individualismo in strati molto poveri della società, cosa che è stata studiata nel conurbano bonaerense, dove vivono 17 milioni di persone, la giurisdizione più grande dell’Argentina. Ci sono ricerche del sociologo spagnolo Roberto Zapata, che ha lavorato per il Pro. ‘Questa non è vita’, diceva la gente”.

Così questi settori “hanno iniziato a diventare di destra”, osserva il giornalista, che l’anno scorso ha pubblicato il libro El nudo: por qué el conurbano bonaerense modela la política argentina (Planeta), in cui afferma che “in quel luogo si condensano i principali conflitti economici, sociali e politici del Paese”.

Negli ultimi anni, molti giovani delle classi popolari della zona hanno iniziato a percepirsi come imprenditori o lavoratori autonomi. Raccoglievano cartone, facevano consegne a domicilio o trasportavano passeggeri con Uber. Non volevano che lo Stato li aiutasse e consideravano in modo negativo le persone che ricevevano sussidi e piani sociali.

“Ed è allora che è apparso Milei, dicendo che i piani in realtà li stavano derubando, che la giustizia sociale è un furto – afferma Pagni –. L’economia informale assume un nuovo significato. Se non ho un sindacato che difende il mio stipendio dall’inflazione, devo venire a patti con un mercato che sta cambiando. E non dobbiamo spiegare a queste persone cos’è il mercato: è quello che vivono ogni giorno, lottando gli uni contro gli altri per il proprio sostentamento economico”. Per sopravvivere.

Parte del pubblico presente all’incontro. 

“È così che siamo arrivati a Milei” riassume Pagni. Un emergente, dunque, dei cambiamenti del mondo del lavoro e delle piattaforme, qualcuno che ha saputo capire la comunicazione di questi tempi e il problema che doveva aggredire: l’inflazione.

Dopo una svalutazione del 118 per centro a dicembre, a pochi giorni dall’insediamento del nuovo presidente, e un indice dei prezzi al consumo in aumento del 25,5 per cento in quel mese e del 20,6 a gennaio, il governo è riuscita a far scendere l’indicatore a una sola cifra. “Ma il Pil si è contratto molto” spiega Pagni, che si chiede: “La gente premierà il calo dell’inflazione o punirà la recessione?”

In questo momento c’è un altro dilemma: gli indicatori finanziari, come il rischio Paese, riflettono buoni risultati, mentre i lavoratori soffrono, anche quelli che non hanno perso il posto: è sempre più difficile pagare i trasporti pubblici e gli stipendi non compensano l’aumento dei prezzi. “A questo punto, il governo, dopo aver abbassato l’inflazione, farà ripartire l’economia?” si chiede il giornalista.

Allo stesso tempo, l’immagine positiva di Javier Milei è in ribasso da giugno. Alcuni sondaggi rivelano che questa caduta è rallentata nell’ultimo mese, nel bel mezzo di un forte conflitto con il mondo universitario per il veto presidenziale alla legge che assegna fondi agli istituti di istruzione superiore.

“Anche il mondo universitario è cambiato molto negli ultimi vent’anni– spiega Pagni – soprattutto per la nascita di molti atenei in aree abitate da classe media e medio-bassa. E di fronte a un panorama di grande espansione dell’individualismo, di persone che non vedono molte prospettive di sviluppo nella vita, ma che non nemmeno vogliono dipendere dallo Stato, la possibilità di andare all’università e di formarsi è una via d’uscita dalla povertà molto apprezzata”.

La prima grande manifestazione a favore delle università pubbliche si è svolta il 23 aprile. Diverse università avevano dichiarato l’emergenza di bilancio. Il governo ha allora accettato di aumentare una parte del bilancio universitario – quella destinata ai costi di gestione – ma non ha migliorato gli stipendi dei docenti. “È su questo che si concentra ora il conflitto” afferma Pagni, mentre gli studenti denunciano la diminuzione del personale docente (e, di conseguenza, del numero di ore di lezione offerte) a causa dei bassi stipendi, che inducono i professori a migrare verso istituzioni che pagano meglio o a preferire altri lavori all’insegnamento.

Per Pagni, al momento, “ci troviamo di fronte a due facce di uno problema: l’università è un bene ed è percepita come tale (poi dovremo vedere se è l’università di cui abbiamo bisogno) ma allo stesso tempo dobbiamo discutere su cosa significhi autonomia universitaria”.

Nella sua analisi, considera “salutare” che per la prima volta si discuta se le università debbano essere controllate o meno. “C’è un interesse legittimo da parte degli studenti a che l’università pubblica continui a esistere, ma questo non può significare difendere una casta universitaria dove ci sono livelli di corruzione altissimi che vanno affrontati”, ha concluso Pagni.

Traduzione di Francesca Capelli.