All’americano Dwight Eisenhower non interessava affatto entrare a Parigi e sfilare sugli Champs-Élysées come ambiva il francese Charles De Gaulle, mentre il generale tedesco Dietrich von Choltitz faceva l’impossibile con il diplomatico svedese Raoul Nordling per non applicare l’ordine di Adolf Hitler di radere al suolo la città. “Parigi brucia?” era la domanda del Führer al crepuscolo dell’agosto del 1944, che poi sarebbe diventata nel 1966 il titolo di un celebre film di René Clement. Il destino della capitale francese, la prima di un Paese occupato dalla Wehrmacht a essere liberata, si compì più per una serie complessa di situazioni e di variabili che per un piano studiato a tavolino.
Aggiramento della capitale e annientamento della Wehrmacht
Non sfuggiva a nessuno l’importanza di togliere Parigi ai tedeschi che l’avevano occupata nel giugno del 1940, e che Hitler aveva visitato da trionfatore, ma neppure che strategicamente la sua conquista non era in cima alle priorità degli Alleati. Investire la città sulla Senna significava infatti rinunciare a una manovra a più ampio raggio mirata all’accerchiamento e alla distruzione su territorio francese dell’esercito tedesco, impedendo che si riassestasse sulla sponda occidentale del Reno a difesa della Germania. La Wehrmacht, dopo lo sbarco in Normandia, aveva fatto sforzi sovrumani per evitare lo sfondamento e in tracollo, e in questo scenario di crisi militare il 20 luglio si era innestata la crisi politica con l’attentato di Rastenburg a Hitler e il tentativo fallito di esautorare le gerarchie naziste a partire dalle SS che in un primo tempo erano state disarmate dall’Esercito regolare. Parigi era stato uno dei fulcri della rivolta soffocata nel sangue. Choltitz era stato nominato il 7 agosto governatore militare di Parigi in sostituzione del generale Carl-Heinrich von Stülpnagel, coinvolto nel complotto, e da subito aveva capito che la situazione era critica. Le forze a sua disposizione erano insufficienti a garantire il controllo della capitale, già attraversata da evidenti segnali di rivolta.
Dallo sciopero all’insurrezione
A sei giorni dal suo insediamento, il 15 agosto, la polizia era entrata in sciopero, e il 19 era divampata l’insurrezione generale. Né i rivoltosi né gli occupanti avevano la forza di risolvere la situazione per liberarsi o per reprimere la ribellione, a differenza di Varsavia che era insorta il primo agosto e dove si combatteva ancora in un bagno di sangue per l’evidente sproporzione di forze a favore delle SS. A Choltitz erano stati fatti arrivare gli esplosivi per radere al suolo Parigi, i suoi ponti e i suoi monumenti, perché Hitler non voleva che si ripetesse quanto accaduto a giugno a Roma, dove era stato disatteso l’ordine di far saltare i ponti sul Tevere che gli americani avevano poi preso di slancio. Il generale tedesco da un lato cercava di guadagnare tempo con Berlino, dall’altro si dibatteva nella ricerca di un compromesso onorevole, tramite il console svedese Nordling che faceva da trait-d’union con la Resistenza.
I piani e le implicazioni
Un ulteriore elemento politico, che andava a incidere non poco sugli avvenimenti, era il ruolo di De Gaulle che ambiva essere pienamente riconosciuto nel suo ruolo di rappresentante unico della Francia, e che rischiava di essere messo in ombra dai movimenti partigiani delle FFI (Forces françaises de l’Intérieur) e in particolare da quelle comuniste del Comac (Comité d’action militaire) comandate da René Henri Tanguy, meglio noto come comandante Rol. De Gaulle doveva dunque ribadire il primato del suo esercito, in cui spiccava la figura dell’aristocratico Philippe François Marie visconte di Hautecloque, più conosciuto col nome di battaglia di Jacques Leclerc, comandante della 2ª divisione blindata. Era riuscito a convincere Eisenhower ad assegnare almeno una divisione francese a ogni casella operativa del gruppo d’armate alleate in Francia e lavorato affinché una di esse entrasse trionfalmente a Parigi per prima per legittimare in Patria e nello schieramento alleato il suo Gouvernement Provisoire de la République Française, scansando la consueta amministrazione militare (Amgot).
Il governatore sollecita ad avanzare
Che i tedeschi dovessero evacuare Parigi era logico a una lettura militare della situazione, ma che dovesse essere fatto senza la pressione dei partigiani era un’esigenza ineludibile, per motivi d’ordine pratico e di prestigio, tant’è che le SS avevano alzato l’asticella delle rappresaglie agli atti di sabotaggio con l’esecuzione di ostaggi; la Capitale, comunque, non poteva essere difesa né da fuori né da dentro, ma non si sapeva quale indirizzo avrebbe preso la rivolta che i gaullisti avevano cercato di rallentare e i comunisti di Rol di accelerare, confidando ambedue nell’appoggio della polizia che nei piani tedeschi avrebbe dovuto essere disarmata a sorpresa il 13 agosto. L’attraversamento non autorizzato della Senna da parte delle avanguardie della Terza Armata del generale George Patton e la creazione di una testa di ponte a Mantes, per coincidenza, aveva fatto da detonatore a una situazione esplosiva. I leader comunisti avevano deciso già il 16 l’insurrezione generale per sabato 19, coinvolgendo tutte le anime della resistenza. Choltitz perseguiva il progetto di una dichiarazione di Città aperta, ma non poteva esporsi per timore di ritorsioni sulla sua famiglia in Germania. L’inizio degli scontri sconvolse ogni equilibrio. Nordling riuscì a ottenere dal generale tedesco una tregua per raccogliere i morti e curare i feriti, col riconoscimento delle FFI come truppe regolari tutelate dalla Convenzione di Ginevra ed il libero transito dei soldati tedeschi senza essere sottoposti ad attacchi. Ma la tregua, il 21, era risultata solo parziale, soprattutto perché il Comac non voleva sentirne parlare (Rol inviò un emissario al comando di Patton per spingerlo ad avanzare e a mandare subito rifornimenti) e alcuni reparti tedeschi non erano stati informati del cessate il fuoco. Martedì 22, quando i combattimenti erano cresciuti d’intensità, Choltitz aveva preso la decisione di mandare Nordling da Patton per dirgli di fare presto, rivelando allo svedese che Hitler gli aveva ordinato di bruciare Parigi. Il Console, colpito da malore, inviò il fratello, ma quando questi arrivò al Comando americano, Eisenhower e il generale Omar Bradley avevano già cambiato i piani e deciso di assegnare a Leclerc l’onore di entrare per primo nella capitale.
La Ville Lumière risparmiata
Mercoledì 23 Hitler ribadiva gli ordini a Choltitz: “Vanno prese le misure più decise. Parigi non dovrà cadere nelle mani degli Alleati se non come un cumulo di rovine”. L’indomani Leclerc ordinò ai suoi reparti corazzati di prendere d’assalto la città: la resistenza tedesca era ormai simbolica. Choltitz, che aveva salvato Parigi, venne prelevato nella sede del suo comando all’Hotel Meurice per firmare l’atto formale di resa in Prefettura. De Gaulle nominò immediatamente il generale Marie-Pierre Koenig governatore militare di Parigi e venerdì 25 agosto sfilò lungo gli Champs-Élysées come aveva sognato dal 1940 con al fianco Leclerc e Koenig. A Place de la Concorde un colpo isolato spezzò per un attimo il clima di festa, temendo qualche franco tiratore. Hitler quello stesso giorno chiese al generale Alfred Jodl: “Parigi brucia?”, ma al Comando supremo non lo sapevano. Era davvero finita. In qualche modo, nella liberazione di Parigi, avevano vinto tutti.