Si parlava già della possibilità di andare alle urne a marzo, anche se il primo ministro Anthony Albanese ha sempre sostenuto la linea della scadenza naturale del mandato a maggio, ora però che è entrata in gioco anche la variante Trump, inevitabilmente si è cominciato a teorizzare sulla possibilità di evitare certe imprevedibilità e presunte complicazioni legate al cambio della guardia alla Casa Bianca, che porterebbero ad anticipare il voto. E, come tutte le teorie che si rispettano, spuntano anche le ‘prove’ come il fatto che il premier del Western Australia, Roger Cook, abbia sondato il terreno al riguardo della possibilità di spostare le elezioni statali in programma l’8 marzo, data prefissata secondo le regole del mandato quadriennale nello Stato in questione.
C’è stata poi la scelta accelerata dei candidati laburisti per i seggi di Lyons e Braddon, in Tasmania, con Albanese direttamente coinvolto nella scelta con l’annuncio di martedì scorso dell’entrata nell’arena federale dell’ex leader dell’opposizione dell’Isola-Stato, Rebecca White nel collegio da difendere (Lyons) e della senatrice Anne Urquhart che ha invece accettato il rischioso passaggio alla Camera via la non facile riconquista laburista del collegio di Braddon, in mani liberali con un margine di consensi dell’8%.
Il capo di governo - prima della partenza per Lima per partecipare (ci saranno, fra gli altri, anche Joe Biden e Xi Jinping) al vertice APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e poi al G20 di Rio de Janeiro -, ovviamente, ha negato le presunte grandi manovre laburiste per il voto anticipato a marzo, parlando di “ossessione” e frenesia giornalistica sulla data delle elezioni del 2025. Peter Dutton, altrettanto ovviamente, non ci sta, incalza e chiede, per puro ‘dovere’ di chi sta all’opposizione, che il primo ministro ponga fine alle speculazioni annunciando le sue reali intenzioni.
E così il gioco continua e marzo rimane una possibilità che però priverebbe il governo di un altro budget (in agenda il 25 marzo), anche se c’è sempre la revisione di metà anno (finanziario), in via di finalizzazione, da poter utilizzare per inserire qualche zuccherino elettorale. Il voto a inizio autunno eviterebbe anche di dover fornire cruciali nuovi dati e spiegazioni sul piano energetico, che sta facendo acqua da tutte le parti. Verrebbe meno, per esempio, la necessità di annunciare ufficialmente, come da programma, gli obiettivi di riduzione delle emissioni per il 2035. Un bell’aiuto per evitare altre figuracce dato che, nonostante l’ostentato ottimismo del ministro dell’Energia e dei Cambiamenti climatici Chris Bowen, non siamo in linea nemmeno con i traguardi fissati per il 2030.
Per i laburisti quella dell’energia è indubbiamente una montagna da scalare dopo gli entusiasmi del 2022 e due promesse estremamente rumorose che non sono state mantenute: la prima era quella di mettere definitamente fine alla politicizzazione di un tema che per troppi anni ha procurato divisioni, opportunismi e un disastroso rialzo dei prezzi, oltre che contribuire a mietere ‘vittime’ illustri come Kevin Rudd, Julia Gillard, Tony Abbott e Malcolm Turnbull; la seconda era quella famosa assicurazione che le bollette energetiche sarebbero scese di 275 dollari entro il 2025, una promessa decisamente non mantenuta, ripetuta in 97 occasioni (ci sono dati statistici su tutto) senza mai arrivare ad un’ammissione da parte di Bowen o di Albanese di un chiaro errore di valutazione.
L’energia quindi rimane prepotentemente e, senza alcuna possibilità di tregua, al centro del dibattito politico con le bollette che invece di scendere continuano a salire, mitigate solo dagli interventi d’emergenza contro il carovita di un governo che continua ad insistere su una specie di ‘missione’ autoimposta di una transizione energetica altamente ambiziosa, per cercare di essere i primi della classe, con misure che non accontentano nessuno. Per i verdi, la squadra teal e militanti del clima, infatti, non si sta comunque facendo abbastanza e per tutto il resto del Paese invece c’è il rovescio della medaglia di eccessivi costi e rischi.
Grazie al caos generato dai diversi piani politici in base a vari livelli di convinzioni, credo, disinteresse, scetticismo presunto o reale, la realtà è che l’Australia, che fino a pochi anni fa beneficiava di costi energetici (che incidono non poco nella vita delle aziende e delle famiglie) estremamente bassi, è diventato uno dei Paesi più cari del mondo per ciò che riguarda l’energia. E tutto questo avendo a disposizione, in fortunata abbondanza, tutte le risorse naturali possibili: carbone, gas, uranio, terre rare, sole e vento. Ma in fatto di propositi, di un piano ben articolato, necessariamente bipartisan se si vuole davvero diventare leader e sfruttare al meglio le ricchezze a disposizione, neanche l’ombra.
Ognuno per sé con traguardi super ambiziosi da una parte e un tentativo ancora non ben spiegato, dettato dalla paura di dare l’impressione di non crederci abbastanza, di fare tutti contenti dall’altra. Alla fine a perderci è la logica e un po’ tutti gli australiani sia dal punto di vista del morale sia della tasca, che in un periodo elettorale vale qualcosa extra.
Nel frattempo, nonostante le assicurazioni di Bowen, si procede a ritmo ridotto rispetto ai proclami e ci sono state ultimamente delle complicazioni extra per alcuni progetti offshore, in particolare per quello che riguarda l’area dell’Illawarra, con due dei più grossi investitori Equinor e Oceanex, che hanno rinunciato all’idea di costruire un parco eolico con 105 turbine galleggianti. Un altro rallentamento che conferma le difficoltà che sta incontrando il governo di arrivare a quota 43 per cento di riduzione delle emissioni entro il 2030, con l’82% dell’energia fornita dalle rinnovabili.
La realtà dei fatti è ben diversa: secondo la commissione stime del Senato, infatti, le emissioni sono aumentate dello 0,4% da quando i laburisti sono al governo e sono al 28% dei livelli del 2005, mentre l’operazione rinnovabili viaggia solo al 50% degli obiettivi prefissati.
Ammissioni zero però da parte di Canberra e nessuna revisione del passo di corsa autoimposto alla transizione, nonostante a problemi di squilibri tra domanda e offerta di energia dovuti all’intermittenza delle fonti rinnovabili che deve, per ora, essere opportunamente bilanciata con l’aiuto dei combustibili fossili, sicuramente da far uscire gradualmente di scena, ma probabilmente con qualche attenzione in più sui tempi e le necessità pratiche dei singoli utilizzatori e delle reti di distribuzione. Bowen però non fa sconti né sui tempi né sui modi e sicuramente lo ribadirà all’ennesima conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima (UN COP 29) in corso di svolgimento (11-22 novembre) a Baku, in Azerbaijan.
Accompagnato nella sua missione dal direttore della Climate Change Authority, Matt Kean, davanti a circa 70mila delegati provenienti da tutto il mondo, il ministro porterà avanti anche l’idea del governo di ospitare il vertice mondiale sui cambiamenti climatici del 2026. Un’opportunità che è già stata etichettata dall’opposizione come un “progetto sponsorizzato dalla vanità”, dato che al momento, secondo Dutton, dovrebbero esserci altre priorità in fatto di obiettivi e spese.
Laburisti in difficoltà, anche se cercano di tenerle più nascoste possibile, ma almeno con una strategia da seguire (anche se richiederebbe qualche ‘onesto’ aggiustamento) e opposizione, invece, chiamata a parlare un po’ più dettagliatamente sulle sue intenzioni, con i dati richiesti per gli obiettivi del 2035 e un poco di chiarezza, una volta per tutte, per ciò che riguarda il nucleare -con tutti i passi da compiere se si vuole davvero realizzarlo, partendo dai veti in vigore da superare – e un piano di investimenti per lo sviluppo di questa tecnologia da abbinare, come ha sempre sostenuto Dutton, alle energie rinnovabili. In attesa, per arrivare davvero ad un sistema energetico sostenibile e resiliente, l’inevitabilità di mantenere nel mix energetico le risorse fossili, ma l’idea già ventilata dai nazionali, dopo l’elezione di Trump, di rivedere l’impegno delle emissioni zero del 2050 non è certo quello che la maggioranza degli australiani si aspettano.