Cosa si legge, in Argentina, quando “si legge italiano”? Esiste un mercato editoriale che si occupa di tradurre in modo regolare gli scrittori degli ultimi 150 anni?
A questa domanda cerca di rispondere la mostra La literatura italiana traducida en la Argentina en los siglos XX y XXI (la letteratura italiana tradotta in Argentina nel XX e XXI secolo), che è anche un tributo alla letteratura italiana e alle opere tradotte e pubblicate in Argentina. È ospitata fino al 31 maggio nella hall d’ingresso dell’Universidad del Salvador (Lavalle 1854) a Buenos Aires ed è costituita da volumi originali di diverse epoche e pannelli esplicativi.
L’esposizione è il risultato del lavoro di ricerca di tre docenti e italianisti dell’Universidad del Salvador, Marisa Ciccarelli, Valeria De Agostini (a destra nella foto sotto) e Nestor Saporiti (al centro), diretti da Nora Sforza (a sinistra). Che hanno passato gli ultimi due anni a inseguire come segugi libri a volte introvabili. Impresa non semplice, malgrado i legami affettivi e culturali che uniscono Italia e Argentina.
“Ci siamo trovati davanti a un vuoto di traduzioni al castellano rioplatense, la varietà di spagnolo parlata nella regione di Buenos Aires e Montevideo” dice Marisa Ciccarelli. Non sembra che le case editrici locali abbiano dedicato molto spazio, nei loro cataloghi, alla traduzione di autori italiani, eccetto i cosiddetti “classici” della letteratura universale, come Luigi Pirandello e Pier Paolo Pasolini.
Se risaliamo all’inizio del ‘900, scopriremo che Cuore (Corazón) di Edmondo De Amicis faceva parte della bibliografia obbligatoria nelle scuole primarie. “Di fatto, i bambini italiani che andavano a scuola in Argentina – osserva Ciccarelli – trovavano nelle sue pagine uno specchio delle loro case. Fino a che non si iniziò a sospettare che quelle letture fossero ‘contaminanti’ per la neonata cultura identitaria argentina”.
Nei programmi e nelle antologie della scuola secondaria attuale troviamo un panorama piuttosto povero, fatta eccezione per le scuole paritarie italiane.
“Ci sono alcuni riferimenti a Calvino, Pirandello, Eco e Dante – dice Néstor Saporiti – ma solo nei programmi delle scuole pubbliche che dipendono dalle Università Nazionali”. Tutte le altre sono regolate dalla riforma della scuola del 1993, che lascia ampio margine d’azione al singolo docente rispetto alla scelta delle letture”.
Va anche osservato che l’insegnamento della lingua straniera nelle scuole secondarie ha da sempre privilegiato l’inglese. “L’italiano è stato inserito solo nel 1917 e la sua popolarità ha avuto alti e bassi – aggiunge Saporiti –. Da qui la scarsa motivazione a inserire in pianta stabile gli autori italiani nei piani di studio”.
Le cose non vanno meglio negli istituti che formano docenti di Letteratura e nelle facoltà umanistiche.
“Letteratura italiana e francese condividono lo stesso spazio, ma quest’ultima ha sicuramente un peso maggiore – dice Valeria De Agostini –. Sono presenti Dante e Boccaccio, ma non Petrarca. Colpisce l’assenza di Manzoni, soprattutto se si considera il suo ruolo nella creazione di un’unità linguistica italiana parallelo al processo di unificazione nazionale del secolo XIX”.
Autori presenti nei pani di studio universitario sono Machiavelli, Leopardi, Beccaria, Goldoni o Pirandello. Nel panorama del ‘900, Marinetti, Moravia, Bassani, Ginzburg, Calvino ed Eco.
Assenze che si traducono in silenzi: e se un autore non può avere voce, a impoverirsi è formazione culturale di un popolo nel suo complesso. “Non è secondaria la questione della traduzione – interviene Nora Sforza –. Molto spesso si tratta di edizioni europee, che usano lo spagnolo iberico”.
Lontano dal castellano rioplatense che costituisce la base linguistica degli studenti argentini. Ha sicuramente un ruolo l’egemonia culturale della Spagna, ma spesso sono le stesse case editrici argentine a non volere sobbarcarsi l’onere di una traduzione propria, dedicata a un mercato limitato all’interno dell’America Latina, con meno di 50 milioni di abitanti (pure comprendendo l’Uruguay).
Ancora una volta, insomma, nella lingua si giocano conflitti identitari e politici, resi più complessi dal fattore economico e dalle scelte dell’industria culturale.