C’era una volta.... Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura. Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce: “Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba di tavolino”. Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perchè sentì una vocina sottile sottile, che disse raccomandandosi: “Non mi picchiar tanto forte!”. Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia! Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno: guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprì l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno. O dunque?... “Ho capito - disse allora ridendo e grattandosi la parrucca - si vede che quella vocina me la son figurata io. Rimettiamoci a lavorare”.
Così inizia la storia di Pinocchio nel romanzo originale di Collodi e di adattamenti a partire dalla versione Disney datata 1940 fino a quella firmata da Matteo Garrone, in attesa che arrivino il Pinocchio live action di Robert Zemeckis con Tom Hanks (Geppetto) e quello in stop motion di Guillermo Del Toro, il romanzo di Carlo Collodi (1881) ne ha avute tante e di prestigio. Ma una su tutte è entrata nel cuore del popolo televisivo italiano: la trasposizione firmata da Luigi Comencini con un indimenticabile gigantesco Nino Manfredi nei panni di Mastro Geppetto, che festeggia i cinquant’anni dal suo debutto, proprio in coincidenza con il 15esimo anniversario della morte del regista scomparso. Cinque puntate per 280 minuti totali che andarono in onda per la prima volta su Rai1 nel 1972: quando ancora le miniserie si chiamavano “sceneggiati” e quando poteva capitare di vedere tutti insieme sullo schermo attori del calibro di Gina Lollobrigida (la fata Turchina), Vittorio De Sica (il giudice), Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (il gatto e la volpe) e poi ancora Renzo Montagnani e Stefano Satta Flores. A guidare il cast un sorprendente esordiente, il piccolo Andrea Balestri nei panni del burattino Pinocchio che fu scelto proprio per il suo carattere vivace e ribelle.
Una generazione se lo ricorda ancora, forse per quel tema musicale, allegro e malinconico nello stesso tempo, firmato da Fiorenzo Carpi. Comencini ci riporta nel Granducato di Toscana, alla metà del 19esimo secolo, dove il falegname che vive in una stamberga e il fuoco è disegnato su una parete decide di fabbricare un burattino di legno, con un ciocco regalatogli da Mastro Ciliegia (Ugo D’Alessio). Grande la sua meraviglia quando al termine dell’opera, la scultura inizia a parlare. E ancor più grande la sorpresa quando, al suo risveglio, Mastro Geppetto si ritrova davanti non più il burattino ma un bambino in carne e ossa. Non è un mistero, il fatto che Comencini si sia preso delle “licenze registiche”, ma va sottolineato su tutte quel Geppetto/Manfredi, immenso, struggente, autentico ancora oggi con rispetto agli autorevolissimi competitor su grande schermo, tanto sul Carlo Giuffrè della versione Roberto Benigni che sul Benigni medesimo della versione Garrone (il film ha ricevuto due candidature all’oscar, migliori costumi e miglior trucco). Ma riguardando Comencini forse aveva colto sfumature “in avanti” e intensità. Parentesi a parte tra le differenze rispetto al testo di Collodi, c’è il fatto che Pinocchio è interpretato da un bambino vero e, solo in alcune scene, viene ritrasformato in burattino (quando viene punito o salvato dalla fata Turchina). Inoltre, tutti i personaggi che nel libro sono rappresentati come animali, nel film sono interpretati da attori in carne ed ossa, vedi il gatto e la volpe, e solo nel trucco ricordano gli animali di riferimento. Fa eccezione il grillo parlante, che è un animaletto ma, a differenza di quanto accade nel libro (e nel film d’animazione Disney del 1940), Pinocchio lo uccide con una padellata, stanco delle sue continue interferenze, e non ricomparirà più. Altra differenza, riguarda il finale. Nello sceneggiato, Pinocchio si trasforma in un bimbo vero quando si trova ancora nella pancia del pescecane gigante, invece nel romanzo il burattino viene trasformato per aver aiutato Geppetto e la fata Turchina.
Il successo dello sceneggiato fu, clamoroso e rimase fedele alla struttura narrativa. C’è da dire che Comencini, noto come grande perfezionista e fenomenale creatore di film a tematica adolescenziale, costruì un mosaico impeccabile. Il regista riuscì a dare la sua impronta poetica, seppur dando al racconto di Collodi maggiore realismo e significati morali importanti. I punti di forza assoluti del progetto: la sceneggiatura, scritta a quattro mani con Suso Cecchi D’Amico; il cast straordinario e poi la colonna sonora. Per il film Oscar Tirelli realizzò tre diversi burattini di legno: uno statico; uno meccanico (utilizzato per le scene in movimento), più una testa senza occhi per le scene del movimento degli occhi; e infine uno acquatico per le scene in acqua. Lo sceneggiato, scritto da Comencini insieme a Cecchi d’Amico fin dal 1963, fu girato tra il Lazio e l’Umbria principalmente nelle province di Viterbo, Terni e Roma.