Sì, no, forse. A quattro settimane dal referendum gli australiani del ‘forse’ sono i più importanti: circa cinque milioni di indecisi che il prossimo 14 ottobre faranno pendere l’ago della bilancia a favore o contro i cambiamenti costituzionali riguardanti la popolazione indigena. Circa il 30 per cento degli aventi diritto al voto che saranno corteggiati apertamente dai militanti del Sì e del No, ora più che mai schierati contro, in una spiacevole ed inopportuna divisione a sfondo politico su un tema che doveva restare fuori dai giochi e dagli interessi di partito.

Come doveva restarne fuori il fattore, ancora più spiacevole e inopportuno, del razzismo con le accuse più o meno dirette e spesso superficialmente rivolte a chi ha già scelto il No e a chi fa campagna contro la proposta portata avanti con convinzione ed impegno da Anthony Albanese, come quelle lanciate, domenica scorsa dal Western Australia, con un’infelice uscita, da Marcia Langton, autrice, assieme a Tom Calma, dell’ormai famoso documento di Uluru che ha dato vita al progetto costituzionale della Voce indigena a Canberra.

Al primo ministro ora il compito di smarcarsi da questa linea di pensiero del razzismo o della stupidità (la Langton ha poi spiegato che le sue accuse riguardavano la campagna del No in generale e non gli individui) e concentrarsi sul positivo, sull’opportunità storica che ora sembrano avere in mano i cinque milioni del ‘forse’, con i rimanenti dodici milioni del numero record di iscritti sulle liste elettorali che avrebbero già deciso se appoggiare o meno la creazione dell’ente consultivo permanente richiesto dalla comunità indigena dopo un lunghissimo processo di incontri, dibattiti e consultazioni condotti in ogni angolo del continente dai primi abitanti della nazione. 

Da domani - dopo il rompete le righe parlamentare, con la pausa dei lavori a Canberra che durerà fino al lunedì successivo al referendum -, i deputati e senatori laburisti sono stati invitati da Albanese a scendere attivamente in campo per portare avanti una campagna a tappeto a favore del Sì (in notevole ritardo nei sondaggi), Stato per Stato, collegio per collegio. La Voce terrà banco nelle prossime settimane offrendo all’opposizione l’opportunità di trovare spazi strettamente politici, mantenendo una certa pressione sul governo al riguardo del costo della vita.

Al contrario del primo ministro, il leader della Coalizione Peter Dutton, infatti, ha invitato i suoi colleghi a mantenere l’attenzione proprio sul fattore economico. Ha capito che il referendum non porta voti, che non ha nulla da guadagnare politicamente, a livello personal, dalla possibilissima vittoria del no e parecchio da perdere, invece, in caso di successo del Sì. Per questo il leader liberale preferisce non coinvolgere i colleghi: meglio, a livello di squadra, tenersi fuori e insistere sul tempo perduto dai laburisti, sulle presunte priorità sbagliate, sulla mancanza di attenzione sui temi che dovrebbero avere la precedenza e che sono lasciati indietro da un primo ministro interamente focalizzato su quello che è, e rimarrà anche dopo il referendum, a prescindere dal risultato, una tema che ha profondamente diviso il Paese.  

“Albanese arrogante e divisivo’, afferma il capo dell’opposizione, anticipando quello che potrebbe diventare un vero e proprio slogan elettorale in caso di bocciatura popolare del referendum. Un primo ministro, insiste il leader liberale, che ritiene che non ci sia un tema più importante di quello che sta portando avanti da più di un anno, ma che si rifiuta di rilanciarlo in un’altra forma se non dovesse superare lo scoglio referendario. “Ci crede o non ci crede?” si domanda retoricamente Dutton che, criticando una presunta mancanza di coerenza del leader laburista, sottolinea invece che la Coalizione intende portare avanti, in caso di vittoria elettorale, il progetto di riconoscimento della popolazione indigena nella Costituzione (senza Voce) cercando con ogni mezzo un accordo bipartisan. 

Il dibattito, insomma, rimane a forti tinte politiche, imperniato sulla credibilità dei due leader. Un test, comunque, che vale qualcosa di più, nel bene o nel male, per Albanese: una vittoria del Sì lo farebbe guadagnare una pioggia di punti-credibilità che gli permetterebbero di rituffarsi con grande autorità nella politica di ogni giorno, guardando con maggiore serenità verso un secondo mandato.

 Tutt’altra storia in caso di bocciatura popolare della Voce, che lascerebbe il Paese profondamente diviso e tormentato sul futuro, almeno sulla questione aborigena, con qualche inevitabile conseguenza personale anche a livello di malumori all’interno del partito per una scelta che non ha mai dato l’impressione di essere stata presa con grande collegialità. 

Il primo ministro cerca di reagire ai sondaggi negativi e dare nuovo impeto alla campagna per l’importante svolta costituzionale, puntando direttamente sull’uomo: ricorda a tutti che Dutton ha offerto il bis sul fronte delle responsabilità nei confronti della comunità indigena, del leader che “non solo si è opposto alle scuse per la generazione rubata, ma le ha ritenute così aborrenti da non presentarsi in aula” in occasione dello storico intervento in parlamento, dell’allora capo di governo Kevin Rudd, il 13 febbraio del 2008.

Impugnando poi alcune rivelazioni sulle direttive di una campagna improntata sulla paura, con false informazioni che diffondono inutili ed ingiustificati dubbi (altro servizio a pag.12), Albanese ha affondato i colpi parlando di tentativi studiati a tavolino per “promuovere l’indifferenza invece dell’ascolto, l’esclusione invece che il riconoscimento” della minoranza indigena. E gli ha fatto eco il ministro della Giustizia, Mark Dreyfus che ha etichettato Dutton come “il leader della disinformazione” perché “la disinformazione è sintomatica della campagna del No”. 

Il capo dell’opposizione, ha continuato il ministro, è “perfettamente consapevole del fatto che le regole costituzionali sono estremamente chiare” e non ci sono secondi fini o pericoli nascosti, dal punto di vista legale, dietro quello che viene proposto. 

Su una cosa però Dutton ha perfettamente ragione: indipendentemente da come andrà a finire il 14 ottobre, il Paese da tutto questo uscirà con qualche ferita di troppo che con una po’ di buona volontà, pazienza e lungimiranza, senza colori politici, si poteva evitare.