Il film Primadonna è basato sulla storia vera di Franca Viola che nel 1965 passò alla storia opponendosi alla consuetudine del matrimonio riparatore, riprendendo le vicende realmente accadute ma non in modo biografico.

“Mi interessava esplorare come la protagonista, opponendosi al matrimonio riparatore, compie un gesto che, sorto come una reazione per autopreservarsi, spinge a un cambio culturale. Volevo mostrare una storia dove una donna attraverso un gesto privato porta a una rivoluzione politica molto importante, perché oggi si parla tanto di femminismo e di donne forti, e sembra quasi che per essere riconosciute come donne che contano si deve essere per forza dure e decise, ma tutti siamo vulnerabili. Questo personaggio non è lo stereotipo di eroina femminile odierno.”

“Mi sono spostata dalla storia vera per prima cosa perché mi avrebbe costretto molto e volevo essere libera di esplorare questa storia in tutte le sue sfumature – ci ha raccontato Marta Savina -. Come genere il biopic implicava dei limiti che per me erano degli impicci. Considero che oggi per fare un discorso politico rilevante, il personaggio di Lorenzo (il colpevole della violenza, interpretato da Dario Aita) non poteva essere ritratto semplicemente come un carnefice. Volevo avere una prospettiva che lo rappresentasse in modo più umano e complesso, mettendo il pubblico davanti a una evidenza scomoda: lui pensa di fare tutto bene, nella sua testa è il principe azzurro. Quando le cose diventano difficili per lo spettatore è quando un personaggio diventa interessante.”

Per la regista era anche necessario mostrare l’evoluzione dei sentimenti della protagonista, all’inizio innamorata di chi poi sarà il suo violentatore, mostrando l’idealizzazione romantica che lei ha del ragazzo: “È chiaro che se sei innamorata la persona si presenta con qualità che magari non corrispondono alla realtà. Volevo che il pubblico sentisse l’innamoramento e la disillusione, che facesse questo viaggio con lei.”

Nata a Firenze da genitori siciliani, Marta Savina ha deciso di girare il film a Galati Mamertino, paese di origine della famiglia paterna, un piccolo comune montano di 1.200 persone. “È una Sicilia diversa dal mare e da Palermo. Quella che conosco bene io.” Infatti, Marta sin da piccola visita la località sicula durante l’estate, momento in cui si celebrano le processioni di San Giacomo e San Rocco, ma la processione mostrata nel film è quella della Vergine, per motivi simbolici. “In paese le processioni sono l’evento dell’estate. Da bambini si partecipa alle feste senza pensarci molto. Mia madre mi raccontava le storie dei santi come se fossero favole, ed è quello che mi affascina del folklore siciliano, che mescola sacro e profano”.

Tutto il processo creativo di Marta Savina è un gioco fra realtà e fantasia. Una scena in particolare mette in tensione questi due aspetti: l’escursione in spiaggia di notte quando la famiglia è ostracizzata dalla vita sociale del paese. “La situazione della spiaggia di notte è nata da un storia che avevo sentito da ragazzina. Una madre di famiglia che aveva un agriturismo a Galati e d’estate quindi lavoravano tutto il giorno, raccontando a mia madre che non poteva portare il figlio al mare disse: ‘andrà a finire che ce lo porterò di notte’. Non so perché mi è rimasta quest’immagine impressa nella memoria”.

Una scena difficile tecnicamente, come ci spiega la regista. “È una luce complicata da gestire e costa molto illuminare un set di notte. Avevamo quindi pensato di girarla con una tecnica che si chiama ‘Notte Americana’ per cui giri di giorno e poi scurisci il colore, ma ha una resa fotografica diversa e gli attori avrebbero recitato di giorno, per me invece era importante che il bambino (il fratello minore della protagonista nel film) vivesse realmente l’esperienza di stare di notte al mare. Era importante che sembrasse realistico perché di per sé era già una situazione un po’ irreale. Una favola che la madre gli costruisce però a causa di una situazione reale che gli sta accadendo. È stato anche difficile da programmare perché su 32 giorni di ripresa abbiamo avuto 29 giorni di pioggia quindi, appena si poteva, andavamo al mare a girare”.

Fortunatamente il meteo sembra essere stata l’unica difficoltà nelle riprese. “Lavorare con questo cast è stato molto piacevole. Nonostante fosse il mio primo largometraggio, anche gli attori più esperti, Fabrizio Ferracane e Paolo Pierobon, sono stati molto affettuosi e molto generosi. La mia tecnica di lavoro con l’attore è una collaborazione, se li voglio portare dalla mia parte, devo ascoltarli e capire chi sono come persone. Cerco sempre di andargli incontro e questo sicuramente rassicura gli attori, sapere che dall’altra parte c’è una persona che ascolta le loro idee. Io non faccio prove della scena, magari solo una lettura ma per discutere sui personaggi, mentre all’inizio delle riprese abbiamo fatto tante prove con gli attori che interpretano la famiglia della protagonista”.

“La familiarità è una cosa difficile da portare in scena e questa famiglia è un atomo, una cellula assolutamente unita e coesa. Abbiamo fatto molti pranzi e cene cucinando insieme e istaurato vere e proprie routine casalinghe. Fabrizio Ferracane e Claudia Gusmano hanno realmente passato delle mattine a zappare la terra da soli e poi tornavano a casa a mangiare insieme. Alla fine per un attore è un lavoro divertente, quindi Fabrizio si è molto prestato a questo metodo. Per me è istintivo lavorare così, come un gioco. Si creano dei momenti che da sceneggiatore non avresti mai inventato, se riesci a vederli e ti aggrappi a quelle cose, è tutto oro che puoi usare quando una scena non funziona, perché ti ispiri a qualcosa di vero”.

Ci racconta inoltre che un’importante ispirazione è stata la poesia Llaneza di Jorge Luis Borges.

“C’è una poesia di Borges che all’inizio delle riprese ho dato da leggere a tutti gli attori. Il senso di questa poesia è che la familiarità è essere accettato in un gruppo senza ori ne meriti, ma semplicemente perché si appartiene”.