A quasi due mesi dalle elezioni federali, l’Australia si trova in un momento cruciale, tra le inevitabili tensioni interne di una campagna elettorale che inizia a prendere sempre più vigore e le sfide globali che il governo Albanese si trova a dovere gestire. Il dibattito politico è acceso: da un lato, il governo laburista cerca di consolidare il consenso, anticipando la possibilità di intervenire, in sede di presentazione di budget, con misure economiche mirate, dall’altro, l’opposizione liberale punta sul posizionarsi come alternativa credibile anche sul piano internazionale per riconquistare terreno.
E proprio in materia di relazioni internazionali, Canberra prova a consolidare la sua posizione tra gli alleati occidentali in particolare nel sostegno all’Ucraina.
Ma tra dazi, sicurezza e politica estera, il vero banco di prova sarà la capacità di parlare agli elettori in cerca di certezze.
Siamo senza dubbio in una fase in cui le relazioni internazionali sono alle prese con un paradigma, narrativo e sostanziale, decisamente mutato rispetto agli ultini anni post Covid.
L’elezione di Donald Trump per un secondo mandato ha rimescolato le carte della politica internazionale, ponendo nuove sfide per tutti, compresa l’Australia. Le sue posizioni su multilateralismo, dazi e conflitto in Ucraina indicano un approccio alle relazioni globali iper-realista, e ben più decisionista, rispetto al precedente inquilino della Casa Bianca.
Tuttavia, sebbene le dichiarazioni, forse ben più che le azioni, di Trump possano apparire destabilizzanti, e certamente lo sono per quella parte di opinione pubblica a lui più avversa, per chi, al governo di un Paese, si troverà ad avere relazioni con il vulcanico presidente statunitense, occorre evitare reazioni impulsive e valutare la situazione con pragmatismo e con la medesima concretezza che il tycoon sta dimostrando in questi primi due mesi alla guida degli Stati Uniti.
Chiunque vada alla Lodge dopo le urne di maggio dovrà usare quanta più lucidità possibile per navigare questi momenti a dir poco turbolenti: sono troppe le aree dove determinare una posizione chiara e assertiva nel rivendicare gli interessi australiani nell’ambito del complesso contesto internazionale.
A partire dalla sicurezza, dove Albanese proprio nelle scorse ore ha dato un chiaro segnale di continuità nell’appoggio all’Ucraina, partecipando al summit dei ‘volenterosi’ voluto dal primo ministro britannico Keir Starmer, in un momento storico decisivo per le sorti del Paese invaso dalla Russia e, in generale, anche per gli equilibri politici internazionali, con l’Europa che prova a far sentire la propria voce, non senza alcune difficoltà, rispetto alla centralità degli Stati Uniti di Trump nella fase negoziale che punta alla conclusione della guerra in Ucraina.
Trump, per far ciò, usando quelle ‘leve’ da uomo d’affari, fatte anche di approcci duri, ‘ricattatori’ direbbero i più critici, ha posto pressioni non indifferenti sugli alleati affinché vengano aumentate le spese militari, e l’Australia non fa certo eccezione. La richiesta di aumentare la quota allocata per la difesa dal 2% al 3% del PIL riguarda infatti anche noi.
E con l’accordo AUKUS in vigore, l’impegno di investire miliardi di dollari nei prossimi decenni è stato già preso, con l’obiettivo di una dotazione di sottomarini nucleari che, tra costruzione e acquisto, segna una dipendenza strategica sempre più stretta con gli Stati Uniti, nonostante la volontà dei verdi di metterlo in discussione e, in generale, di mettere in discussione l’intera relazione con gli Usa.
Un’alleanza strategica che, invece, deve necessariamente avere una visione di lungo termine e, in tal senso, non dovrebbe essere condizionata dalla contingenza di un momento storico di cambiamento di dialettica nelle relazioni tra Australia e Stati Uniti. In ballo, infatti, c’è molto di più di una, pur impattante, possibile ‘contesa dei dazi’, che, si auspica, possa trovare alla fine una concreta convergenza di cointeressenze che non sfoci in un protezionismo economico che potrebbe nuocere a tutte le parti in causa. Da Canberra si deve gestire con una certa cautela la pressione dei dazi di Washington, che vanno a colpire anche il settore dell’acciaio e dell’alluminio australiano.
Sebbene questi costituiscano una piccola frazione dell’export nazionale, l’Australia dovrà però bilanciare con attenzione le sue relazioni commerciali con gli Stati Uniti e la Cina, evitando di farsi trascinare in dispute tariffarie dagli esiti non certamente favorevoli.
Ma ancor di più, l’Australia deve consolidare, o forse rinnovare in maniera più assertiva, la propria posizione di nazione di riferimento per tutto l’Indopacifico, in un’ottica di alleanza strategica con Stati Uniti, Regno Unito e, perché no, anche Europa e Italia, che non si fermi però solo all’aspetto della pur rilevante dinamica militare a freno delle mire espansionistiche cinesi.
Sul fronte militare, infatti, nonostante il timore di un disimpegno statunitense e le pretese dei verdi australiani, l’alleanza tra Australia e Stati Uniti resta ancora solida. Gli investimenti reciproci superano il trilione di dollari e, oltre al già citato AUKUS, le basi militari condivise – tra cui Pine Gap e le installazioni a Darwin e Perth – rafforzano questo legame strategico.
Di fronte alle incertezze, l’Australia deve rafforzare i suoi legami con i partner regionali. Cooperazione con Giappone, India, Corea del Sud e i Paesi del Sud-Est asiatico, oltre a un maggiore supporto alle nazioni del Pacifico, potrebbero garantire una maggiore autonomia strategica in questa parte del mondo. Un incremento delle spese per la difesa è inevitabile, ma senza farsi trascinare in conflitti lontani e avendo lo sguardo molto puntato su ciò che accade nella nostra area geografica di riferimento.
Il punto è che il rischio più grande per l’Australia non è la presidenza di Trump in sé, ma una reazione eccessiva alle sue politiche e ai suoi approcci poco ortodossi. Se è vero che Trump sta ridefinendo gli equilibri globali, è altrettanto vero che la storica relazione tra Stati Uniti e Australia non si baserà solo sulle fluttuazioni e sulle esasperazioni dialettiche della Casa Bianca.
Non si dovrà, quindi, cedere alla paura o all’ansia da prestazione, provando, ma questo lo ripetiamo ormai da tempo, ad avere una visione di prospettiva che vada ben oltre i tre anni di governo. Come detto, a chiunque gli australiani daranno fiducia alle prossime elezioni, si chiederà un approccio realistico e proattivo, con l’obiettivo di rafforzare la nostra posizione a livello internazionale senza, con questo, compromettere alleanze fondamentali.