Ha provato a tenersi distante dalle questioni relative all’ormai prossimo referendum sulla Voce, il primo ministro Anthony Albanese, durante i suoi impegni istituzionali sul fronte internazionale. Consapevole, e l’ha confermato da Nuova Delhi, dell’importanza di un costante lavoro di posizionamento strategico dell’Australia nello scacchiere internazionale, Albanese è sceso in campo in prima persona all’ASEAN, poi nel bilaterale delle Filippine e, infine, prima di tornare a Canberra, al G20 indiano con un occhio alla Cina, dove (vedi articolo a pagina 13), si recherà in visita entro la fine di quest’anno. Ma intanto, almeno sulla base degli ultimi sondaggi, i sostenitori del Sì al referendum continuano a diminuire.
Mancano poco più di trenta giorni alla data in cui gli australiani saranno chiamati a recarsi alle urne e forse i promotori della campagna del Sì avrebbero preferito trovarsi in una condizione migliore, almeno dal punto di vista delle previsioni di voto.
Infatti, da un sostanziale alto sostegno alla causa del Sì alla Voce, nel corso dell’ultimo anno questo consenso si è andato a perdere in maniera abbastanza costante, l’ultimo rilevamento di RedBridge, pubblicato l’altro ieri, parla di una stima del 61% che voterebbe No e del 39% di favorevoli al Sì. Sembrerebbe, almeno a giudicare da quanto emerge da questi sondaggi, che più ci si avvicini al giorno del voto, con una campagna in corso che, tuttavia, a detta dei più critici osservatori, continua a mancare di alcuni dettagli, e più il consenso al Sì vada a rosicchiarsi sempre più.
Il risultato del sondaggio RedBridge è il più basso per quanto riguarda i favorevoli al Sì, ben peggiore del Newspoll della settimana scorsa dove, nel 38% di chi si dichiarava favorevole al Sì, era incluso anche il 9% degli indecisi. Al momento quindi, cumulando i diversi sondaggi, la media di chi voterebbe Sì si attesta al 43,7%, con il No avanti al 56,3%.
A questi dati hanno replicato i promotori della campagna del Sì e i leader indigeni che si sono invece detti ancora fiduciosi del fatto che, il giorno del voto, gli australiani voteranno Sì alla Voce.
L’ex co-presidente della First Peoples’ Assembly of Victoria, Marcus Stewart, ha confermato di non essere affatto nervoso nel leggere cosa emerge dai sondaggi: “In ogni conversazione che abbiamo tra la gente, spostiamo l’asse del voto perché la gente capisce di cosa si tratta. [Gli australiani] non stanno ascoltando le bugie che vengono dette”, ha detto Stewart ieri ai cronisti a Melbourne.
Stewart è poi tornato anche su una delle più ricorrenti affermazioni portate avanti da chi sostiene il Sì, ovvero che il giorno del voto la vita quotidiana per gli australiani non cambierebbe affatto, mentre per la popolazione indigena si tratterebbe di un sostanziale passo in avanti.
Anche da Noel Pearson, intervistato nel ‘salotto’ della domenica mattina di Insiders, sull’ABC, la convinzione che il Sì possa, alla fine, prevalere sul No.
“Rappresentiamo il 3% della popolazione. Siamo il popolo più impotente del Paese, con l’elettorato politico più debole del paese, ma attraverso la discussione e una campagna costante siamo riusciti a ottenere dei risultati. Siamo gli sfavoriti in questo referendum, ma credo ancora che possiamo ottenere la vittoria”, ha affermato Pearson ai microfoni dell’ABC.
“Non posso credere - ha sottolineato Pearson - che quando verrà tesa la mano per consolidare l’amicizia e la riconciliazione della popolazione indigena, questo amore non verrà corrisposto. Non posso credere che viviano ancora in un’Australia dove questo possa accadere. Questo è il mio peggiore incubo, ma non credo che gli australiani siano capaci di fare ciò in questo particolare momento della nostra storia”.
Pearson ha anche puntato il dito sulla rottura di quella adesione politica bipartisan a cui si ambiva da sempre, causata, a suo dire, anche dalla senatrice Jacinta Nampijinpa Price, tra le più decise sostenitrici della campagna per il No alla Voce.
Un approccio più ampio, tuttavia, ma anche una maggiore apertura per un dibattito che potesse coinvolgere e riunire intorno a un tavolo istituzioni, figure rappresentative e leader della popolazione indigena, non indigena e un fronte parlamentare bipartisan, al quale forse lo stesso primo ministro avrebbe potuto puntare molto di più, invece di decidere di mettersi a testa bassa a promuovere il referendum, con il solo supporto del suo partito e dei maggiori sostenitori della causa del Sì alla Voce.
Facendo così, purtroppo, la narrativa che sta accompagnando questa campagna referendaria, da qualsiasi parte la si legga, è molto strutturata su una dialettica politica alquanto divisiva. Ci avviciniamo alla data del voto e le incertezze, anche dal punto di vista costituzionale, restano ancora molte, così come resta molto alta e intensa la disputa politica su quello che, tutto sommato, sarebbe potuto e dovuto essere un progetto di riconoscimento, riconciliazione e sostegno, di assoluto e condiviso buon senso.
E ora, sempre che nel corso di questo ultimo, decisivo, mese di campagna, non vengano aggiunti elementi chiarificatori o impostato un diverso approccio, come detto, bipartisan, cosa a questo punto molto poco possibile, il rischio è che questa dinamica così divisiva possa restare in piedi anche dopo il 14 ottobre, a prescindere dal risultato delle urne.