Se l’ex direttore di PowerNet, GasNet, Energy Australia, China Light & Power System di Hong Kong, Ted Woodley, ha ragione, non solo la Coalizione è nei guai, ma l’intera nazione potrebbe avere problemi se il progetto del nucleare, così com’è stato annunciato da Peter Dutton, va avanti senza una dettagliata analisi esente da interessi politici. Come nel caso dello Snowy Mountains Scheme 2.0 di Malcolm Turnbull, infatti, si sta mettendo il classico carro davanti ai buoi. Ovvero, sostiene Woodley in un articolo pubblicato venerdì scorso dal quotidiano The Australian, la politica mette troppo fretta alle buone intenzioni e magari anche alle buone idee. Vengono cioè annunciati degli ambiziosi piani energetici, di cui il Paese ha indubbio bisogno, senza fare i conti con i costi e le possibilità di realizzazione nei tempi che altrettanto ambiziosamente vengono fissati.

Al di là dei pro e dei contro dell’opzione nucleare, che il leader dell’opposizione propone  come alternativa alle scelte del governo Albanese per ciò che riguarda la  transizione energetica che dovrebbe portare all’abbandono dei combustibili fossili, c’è il fattore degli investimenti nel settore e, soprattutto, il fatto che un futuro governo sarà, secondo quanto annunciato da Dutton, il maggiore, se non il solo (almeno in partenza), sponsor del mega progetto. Sette centrali atomiche nel piano “Australia’s Energy Future” che, anche come ‘titolo’  non è andato troppo lontano dal “Securing Australia’s Energy Future” annunciato, nel 2017, dall’allora primo ministro Malcolm Turnbull. Stessa fretta, stesse ambizioni politiche e pratiche e stesso processo sia per ciò che riguarda la scarsa informazione con le parti in causa (sette anni fa gli azionisti dello Snowy Hydro e i governi del New South Wales e del Victoria e questa volta le amministrazioni dei cinque Stati che dovrebbero ospitare le nuove centrali), sia sul procedere, con la promessa che solo una volta che l’idea otterrà l’approvazione popolare (via vittoria elettorale della Coalizione) sarà avviato lo studio di fattibilità, con tutti i dettagli del caso. Quindi ancora una volta prima l’annuncio e poi il come, quando e quanto, abbinando i necessari numeri ai particolari tecnici ed economici. Insomma un andare a cercarsi dei problemi che potevano e dovevano essere evitati. Invece la voglia di differenziarsi ha avuto la meglio e l’impegno di andare avanti ‘costi quel che costi’  - un po’ come aveva fatto, pagandone le conseguenze, Bill Shorten nel 2019, sempre per ciò che riguardava i programmi di decarbonizzazione del Paese - ha fatto rabbrividire più di qualche elettore e fornito preziose munizioni elettorali ai laburisti. Con l’esempio dello Snowy 2.0 davanti agli occhi di tutti, ‘l’annuncio ora e i costi dopo’ non è una grande idea, specie se qualcuno si prende la briga di far ricorso ai dati che sono arrivati dopo la promessa del piano che, a detta di Turnbull, avrebbe dovuto “cambiare per sempre il futuro energetico dell’Australia”. Inizialmente, infatti, lo Snowy 2.0 doveva costare circa 2 miliardi di dollari che, dopo lo studio di fattibilità, sono diventati 3,8, con la possibilità di arrivare a un massimo di 4,5 miliardi. Poi l’immancabile revisione che ha portato le stime di spesa a 12 miliardi, prima di arrivare agli attuali 25, che includono ulteriori costi infrastrutturali e le necessarie nuove linee di trasmissione. Sui tempi del progetto poi siamo passati dal super ottimistico iniziale 2021 (quattro anni di lavori) per slittare poi, con varie correzioni strada facendo, al 2028, con tutti gli esperti che comunque confermano che non sarà così. In questo caso missione davvero impossibile, con tutta la più buona volontà e tutti i miliardi extra che continuano a essere investiti in un progetto che, una volta completato, diventerà semplicemente una specie di grande batteria capace di generare circa 2200 MW di potenza per sette giorni, una goccia nell’oceano dei consumi della nazione, secondo gli esperti. Meglio di niente, ma sicuramente non il progetto che avrebbe dovuto “assicurare il futuro energetico dell’Australia”. 

Lezione imparata? Neanche per idea. Le sette centrali atomiche annunciate da Dutton (due nel New South Wales, due in Queensland e una ciascuna nel Victoria, South Australia e Western Australia) - secondo quanto ha scritto Woodley -  a pieno regime (solo dopo il 2050 sembra, ma come detto non ci sono ancora i dettagli, ma solo gli esempi di altri Paesi a cui fare riferimento), non potranno generare più del 3% del National Electricity Market (NEM), mentre nella fase intermedia del 2037, quando i primi due impianti diventeranno ottimisticamente operativi, sarà fornito solo l’1% del NEM. Ma quello che è peggio in questo quadro che più astratto non potrebbe essere, le prime centrali nucleari non saranno comunque pronte prima della chiusura delle centrali a carbone che dovrebbero rimpiazzare. 
A complicare il futuro energetico dell’Australia, oltre alla fantasia dell’opposizione, le ambizioni dell’attuale amministrazione che, prima o poi, dovrà fare i conti con la realtà dell’impossibilità di raggiungere i traguardi che si è prefissata, rispondendo in qualche modo alle aspettative politiche alimentate dal costante tambureggiare sulla crisi climatica globale. Gas e carbone continuano a generare circa il 75% del fabbisogno energetico nazionale e, considerando che lo scorso anno c’è stata una riduzione della ‘dipendenza’ dai combustibili fossili di solo lo 0,5%, il traguardo dell’82% di energia verde promesso dai laburisti per il 2030, è un autentico miraggio. Con tutte le più buone intenzioni, oltre che un’autentica rivoluzione nei campi dell’agricoltura, dei trasporti su strada, via mare e via aerea e uno sviluppo di dimensioni-record di impianti eolici e solari, secondo gli esperti del settore, quegli 82 punti percentuali di produzione energetica verde potranno essere raggiunti solo nel 2051. Scordiamoci quindi  l’ambito zero netto che il mondo vorrebbe un anno prima (2050), e che i politici continuano a promettere pensando più che al futuro del pianeta a quello proprio. Il pubblico comunque ci sta, vuole crederci e viene accontentato. Almeno su questo, l’accordo bipartisan c’è.