La prima settimana di lavori del 48esimo Parlamento australiano si è conclusa tra cerimonie e rituali della democrazia, volti noti e meno noti, discorsi di insediamento toccanti e vecchie ruggini mai sopite.Ma al di là di quanto si è visto in questi primi giorni negli scranni delle Aule del Parlamento, una fotografia ben definita che rappresenta plasticamente la vittoria schiacciante dei laburisti alle urne di maggio, resta, neanche troppo sottotraccia, l’aspettativa, se non anche l’urgenza, per risposte concrete su vari fronti. Uno fra tutti quello di un contesto economico che, per cause strutturali interne e circostanze internazionali, resta fragile, esposto all’incertezza e pieno di tanti interrogativi.

Ancor prima che si tornasse tutti a riunirsi a Canberra, il Tesoriere Jim Chalmers aveva rimesso al centro dell’agenda politica un concetto tanto importante quanto sfuggente: la produttività. Manca meno di un mese alla tavola rotonda economica convocata a Canberra dal 19 al 21 agosto, eppure resta ancora difficile capire cosa davvero verrà fuori da questo incontro. Commenteremo un vertice dalla portata storica riformista o un’esibizione di forza delle parti coinvolte al tavolo? Si tratterà di un laboratorio dove esercitare la complessa arte del compromesso o finirà per diventare una passerella per posizionamenti politici e ideologici?

Dalla lista degli ospiti emergono i grandi assenti, le  autorità statali e territoriali, fatta eccezione per il tesoriere del NSW Daniel Mookhey, presente in qualità di presidente del consiglio dei Tesorieri. Un dettaglio non da poco che lascia intendere forse l’intenzione di non confondere troppo i piani, lasciando che sia il Consiglio intergovernativo il luogo deputato per affrontare i ‘grandi temi’ in maniera strutturale. Ed è un dettaglio già ampiamente criticato dai premier, in particolare da quella del Victoria, Jacinta Allan, particolarmente netta nell’evidenziare che qualsiasi importante riforma non potrebbe essere pienamente raggiunta senza il coinvolgimento dei principali responsabili in settori chiave come, ad esempio, quello della pianificazione infrastrutturale, della sanità e della formazione.

Vedremo nel merito, da qui alle prossime settimane, i temi che saranno affrontati al tavolo ma, sullo sfondo, è già evidente come la frattura tra diverse visioni rimanga ancora netta. Da un lato c’è il fronte delle imprese, unite in una sorta di macro-alleanza che riunisce piccole, medie e grandi imprese, università, investitori, finanza, banche e grande industria, che chiede una riduzione dell’impatto regolamentare, un sistema fiscale più orientato alla crescita e una revisione in chiave più funzionale ed efficace dei processi di approvazione e sviluppo per progetti strategici.

Dall’altro lato ci sono i sindacati, guidati da Sally McManus e Michele O’Neil, che rifiutano l’equazione che ottenere maggiore produttività corrisponda a fare di più con meno risorse e rilanciano una visione concentrata sulla riduzione dell’orario di lavoro e sul contrasto alla pressione eccessiva sui lavoratori, imputando la stagnazione della produttività a una classe dirigente impreparata e poco lungimirante.

Il governo si deve muovere tra queste due grandi blocchi con cautela. Chalmers ha promesso dialogo, ma ha già escluso alcuni temi chiave: nessuna riforma dell’imposta GST, nessuna apertura esplicita sull’efficienza della spesa pubblica in settori chiave come la sanità.

Eppure, come ha ricordato la Productivity Commission, il rallentamento della produttività non è certamente un mistero ma una somma di cause ben identificabili: politiche pubbliche disincentivanti, crescita dei settori non di mercato finanziati dallo Stato, mancanza di riforme strutturali.
L’Australia, in breve, lavora tanto ma produce poco. Dal 2015, la crescita della produttività del lavoro si è fermata allo 0,4% annuo. Il dato fa riflettere, soprattutto se paragonato alla media storica dell’1,6%. Non è colpa esclusiva dei governi recenti, ma il fatto che la produttività non sia risalita neppure dopo la pandemia, nonostante un mercato del lavoro che, anche grazie al supporto pubblico, ha resistito al dramma delle chiusure prolungate per far fronte all’emergenza sanitaria, e livelli d’occupazione elevati, lascia intuire problemi di fondo. 

La stessa governatrice della Reserve Bank, Michele Bullock, intervenendo all’Anika Foundation la scorsa settimana, ha ribadito che l’obiettivo di lungo termine resta l’equilibrio tra inflazione bassa e piena occupazione. Ma la banca centrale può solo accompagnare il percorso di riforma, non sostituirsi alla volontà politica.

In questo contesto, lo scetticismo cresce. Le imprese temono una replica del Jobs and Skills Summit del 2022, dove il governo ottenne l’appoggio delle parti per poi portare avanti un’agenda già scritta. I sindacati, forti di un ascolto significativo da parte del governo Albanese, sembrano più interessati a consolidare le conquiste normative che a ragionare sul cambiamento. E il rischio è che anche questa volta il vertice si chiuda con tante buone intenzioni e pochi impegni vincolanti.

La lista degli invitati riflette bene questo equilibrio delicato. Accanto ai leader delle maggiori organizzazioni economiche, Bran Black del Business Council, Innes Willox dell’Industry Group, Andrew McKellar della Camera di Commercio e Industria, ci sono figure istituzionali come il segretario del Tesoro, Jenny Wilkinson, e il capo del dipartimento del Primo Ministro, Steven Kennedy. Colpisce l’assenza del Minerals Council of Australia, nonostante la centralità del settore estrattivo nei discorsi sul futuro fiscale. Al contrario, trova spazio Ken Henry, autore della storica Henry Review sulla tassazione, e Allegra Spender, deputata indipendente che sta promuovendo una tavola rotonda dedicata proprio alla riforma fiscale.

È significativo che, al di là delle dichiarazioni, non ci sia ancora un consenso reale su quale direzione prendere. Il governo rifiuta di toccare la GST per non compromettere il patto elettorale sul costo della vita. Ma questo blocco, per quanto comprensibile sul piano politico, impedisce di riequilibrare il sistema fiscale troppo centrato sul reddito personale. Il paradosso è evidente: si parla di ‘resilienza economica’ ma non si utilizzano gli strumenti più efficaci per ottenerla.

Eppure, il contesto richiederebbe forse più audacia. La transizione digitale, la neutralità climatica, l’evoluzione demografica e le tensioni geopolitiche sono sfide che impongono una revisione dei modelli di investimento, di spesa pubblica, di allocazione del capitale umano.

La Productivity Commission sta presentando cinque rapporti tematici – su forza lavoro, digitale, cura, energia e resilienza – che potrebbero offrire una base tecnica solida. Ma senza una volontà politica forte, quei dati rischiano di restare lettera morta.
In conclusione, l’Australia si trova di fronte a un bivio che va oltre la tavola rotonda di agosto. Serve decidere se affrontare la sfida della produttività con strumenti coraggiosi o se continuare a galleggiare tra misure tampone e retorica concertativa.

Il governo ha il merito di aver aperto uno spazio di confronto, ma ora deve decidere se quel confronto sarà reale o solo una conferma dell’esistente. Le imprese, i lavoratori, i cittadini, tutti meritano una risposta chiara. Perché la produttività non è una formula astratta: è il modo con cui un Paese vuole costruire il proprio futuro.