Una data importante, quella di oggi, quando è trascorso esattamente un anno dal referendum su “The Voice”, un anno da una sconfitta che ha lasciato strascichi amari, in particolare nella popolazione indigena australiana.
Una sconfitta che ha certamente un valore per le ricadute, vedremo quali, in prospettiva, sull’attribuzione di responsabilità in capo al primo ministro che ha investito tempo, energia e risorse nel corso della prima fase del suo mandato. Ma il ‘No’ uscito dalle urne un anno fa sembra non avere ancora esaurito l’onda divisiva che ha accompagnato l’aspra campagna elettorale referendaria, in una dinamica ancora irrisolta nel tentativo, evidentemente non riuscito allora, di offrire un contributo riparatorio ai popoli delle Prime Nazioni.
Con il senno di poi, le colpe, se tali vogliamo definirle, sono semplici da individuare, e da queste pagine non abbiamo mancato di sottolinearle anche nel corso della campagna referendaria ma, ancora oggi, non può non essere riconosciuta la buona volontà pur attuata in una male articolata proposizione di intenti.
Da oggi, pur considerando una certa ‘indifferenza’ generale a un anno di distanza da quel voto, però non ci si può non attendere una nuova presa di coscienza che abbia una matrice bipartisan, nella costruzione di una piattaforma di dialogo scevra di quella componente divisiva che non ha certamente fatto del bene al referendum voluto da Anthony Albanese.
Per i laburisti e per coloro che si sono spesi maggiormente nel sostegno del “Sì”, sembra più che necessario trovare una nuova direzione questa volta con meno ambizioni, forse, ma più concretezza. Perché ciò che è rimasto da quel voto è davvero poco, se non nulla: nessun riconoscimento a livello costituzionale e nessun organo consultivo.
Tutto ciò che è accaduto lo scorso anno sarà materia di studi più approfonditi, fra qualche tempo, magari quando il ‘pathos’ e l’emotività avranno lasciato il campo a più miti analisi, capaci di comprendere perché non sia stata scelta la strada di normare in sede parlamentare una “Voce”, o di affrontare, in un accordo appunto bipartisan un percorso verso per il riconoscimento costituzionale, magari scindendo le due vicende in due momenti distinti.
Il paradosso a cui rischiamo di assistere ora è che, a fronte di un fallito tentativo a livello federale, le materie ‘Voce’ e riconoscimento costituzionale restino appannaggio di Stati e Territori, con una portata, evidentemente, di minore potenza ma ciò che resta, oggi, è una sorta di ‘paralisi’ politica sia sul fronte di chi aveva investito tempo ed energia sul ‘No’ che sui promotori della campagna per il ‘Sì’. Nessuna alternativa valida, al momento, e resta in un limbo la possibilità di vedere i popoli delle Prime Nazioni riconosciuti in maniera istituzionale e soprattutto nelle modalità volute e condivise dai leader indigeni.
L’attualità politica di questa primavera dice anche molto altro, il primo mandato di Anthony Albanese va verso la conclusione, e la campagna elettorale sta per entrare nel vivo.
I sondaggi più recenti stanno dando modo a osservatori e analisti politici di immaginare quale possa essere il futuro del primo ministro, quali e quante siano le possibilità per i laburisti di uscire dalle prossime urne con una vittoria netta. Resta tutto aperto, potrebbe infatti essere una vittoria senza una maggioranza, una condizione che potrebbe costringere il vincitore a complesse alleanze con concreti rischi di stallo.
Economia, energia, costo della vita, riforme industriali, sono alcune delle caselle da spuntare per avviare una convincente campagna elettorale. Dal punto di vista del governo, certo, non sarà semplice spiegare agli elettori cosa intende fare in un secondo mandato, spiegando perché non l’abbia fatto in questi primi tre anni, dal lato dell’opposizione ci si attende qualcosa di più di quanto fanno finora, con una sequenza di annunci mai circostanziati nel dettaglio, si veda, ad esempio, la proposta nucleare firmata Dutton.
Finora Albanese sta spingendo sulle poche cose su cui fare leva tra cui un recupero sul fronte dell’inflazione, rispetto al quale però, c’è sempre un continuo batti e ribatti con i vertici della Reserve Bank.
Il prossimo budget fissato per il 25 marzo del prossimo anno offre già spunti per ipotizzare che la probabile data delle prossime elezioni possa essere il 17 maggio e che, quindi, la campagna elettorale possa entrare nel vivo già entro la fine di quest’ anno.
Sono tanti i punti interrogativi che gravano sulla prossima sfida, con l’opposizione che ha davvero molto da recuperare, con un conteggio di almeno 17 seggi da riconquistare se la Coalizione vorrà ottenere una netta maggioranza.
Ma le domande più pressanti restano, inevitabilmente sul governo: come detto c’è da comprendere quali e quanto ‘dannose’ siano le ‘scorie’ dell’impegno sul referendum, che ha visto lo stesso Albanese spendersi molto in prima persona. Ma, circostanza decisamente più attuale, sembra essere altrettanto d’impatto, in termini di riconoscimento di capacità di guidare un Paese in momenti complessi, la gestione, a volte vagamente ambigua tra le fila dei membri del Gabinetto, della crisi in Medio Oriente.
I rischi sono davvero molto evidenti, e non solo in termini di consenso elettorale, con la comunità ebraica e quella musulmana che potrebbero ritenersi entrambe insoddisfatte dalla risposta del governo, ma il vero pericolo è, questa volta forse ancora più ‘pesante’ rispetto alla divisiva campagna referendaria, di creare evitabili tensioni sociali.
Il dramma che si sta vivendo in Israele e Palestina non è solo materia di politica estera, di rispetto del diritto internazionale e di difesa delle democrazie occidentali contro pericolose teocrazie illiberali, ma ha una terribile ricaduta in termini di crisi umanitaria, e da qui le scelte da fare quando si tratta di rifugiati, richiedenti asilo, immigrazione e sicurezza. Nulla di tutto questo va sottovalutato e su questo tema non possono essere accettate ambiguità, né dall’una né dall’altra parte.
Le sfide per Anthony Albanese e il suo governo sono molte, la lunga campagna elettorale verso il voto di maggio richiederà determinazione, programmi e promesse particolarmente solide e concrete, per superare una sempre più crescente base di incertezza, economica, sociale e politica.
Le stesse sfide sono quelle che si parano davanti alla Coalizione, perché, in fondo, uscire dalle urne con un governo di minoranza potrebbe non essere un grande favore per il Paese.