Quarant’anni sono trascorsi dalla tragedia di Vermicino, vicino a Roma, ma quella tragedia gli italiani non l’hanno dimenticata.
Per tre giorni tutta la nazione, incollata davanti alla televisione, seguì l’agonia di Alfredino Rampi. La vicenda del ‘“pozzo maledetto” cominciò alle 19 di un caldo giorno di giugno del 1981, e subito i giornali radio dettero grande risalto alla notizia.
Il bambino era andato con i genitori, Nando Rampi e Franca Bizzarri, nella casa di campagna nei pressi di Frascati.Rincasando il padre non lo trovò.
Immediatamente scattarono le ricerche. I lamenti provenienti da un pozzo artesiano portarono un sottufficiale della polizia alla tragica scoperta. Le prime ore delle operazioni di soccorso trascorsero nell’incertezza della via migliore da seguire. Fu calata al bimbo una tavoletta legata a una corda che restò incastrata e che comportà in seguito difficoltà insormontabili per far giungere ad Alfredino soccorsi di ogni genere. Intanto, un microfono sensibilissimo fu calato ad alcuni metri di distanza dal bimbo.
E così a tutti gli italiani fu possibile ascoltare per quasi due giorni le invocazioni d’aiuto di Alfredino, mentre da quel momento ebbe inizio il drammatico dialogo tra il piccolo e il vigile del fuoco Nando Broglio. Non si lascià niente d’intentato: un “uomo ragno” cercò di rimuovere la tavoletta e si cominciò a scavare con una trivella. E intorno, tantissima gente, venuta non soltanto da Roma, ma anche da città vicine nella speranza di vederlo uscire salvo.
Intanto ad Alfredo veniva fatto bere saccarosio da una flebo calata giù nel cunicolo. Anche l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini si recò sul luogo della tragedia e volle parlare con il bimbo. Poi, all’ottimismo che aveva preso un pò tutti i presenti nel pomeriggio del secondo giorno di soccorsi, quando la trivella era scesa a 31 metri, a poco a poco si sostituì l’angoscia. Alfredino era scivolato di altri 30 metri. E tutto avvenne in un’interminabile diretta televisiva delle due reti della Rai. Vani furono anche gli sforzi dei volontari Angelo Licheri e Donato Caruso, che si calarono nel pozzo e più volte cercarono di legarlo.
All’alba del terzo giorno il bimbo morì. E subito seguirono le polemiche per la conduzione dei soccorsi con il lancio di accuse d’imperizia. E non fu risparmiata neppure la madre di Alfredino, accusata di essersi allontanata per cambiarsi d’abito, di non essersi “disperata abbastanza” in maniera evidente. Seguirono perfino telefonate a casa Rampi in cui si chiedeva se fosse vero che il bimbo non era figlio di Nando Rampi e se fosse vero che era stato il padre a gettarlo nel pozzo per liberarsi di un bambino cardiopatico dalla nascita. Seguì, poi, un processo contro l’operaio responsabile dello scavo Elio Ubertini e il proprietario del pozzo Amedeo Pisegna, che furono assolti dall’accusa di omicidio colposo. Elveno Pastorelli, allora comandante dei vigili del fuoco di Roma, che assumendosi una responsabilità che sembrava non competere a nessuno e che coordinò i soccorsi, fu invece scagionato completamente in istruttoria.
“In questo Paese manca ancora a livello diffuso la cultura della prevenzione” è la considerazione di Franca Bizzarri Rampi, la madre di Alfredino. Un pensiero il suo affidato a Daniele Biondo, psicoanalista, del direttivo del “Centro Alfredo Rampi”, fondato a poche settimane dalla tragedia, indimenticabile, anche a distanza di quarant’anni, per molti italiani che in migliaia per tre giorni rimasero incollati davanti al televisore per seguire i tentativi di salvataggio del piccolo immerso nel fango. Anzi quando la Rai decise di interrompere la diretta, l’azienda fu subissata di proteste e decise di ristabilire il collegamento, ma non poté raccontare il sospirato lieto fine, ma solo il triste epilogo.
“Anche se in realtà Franca Rampi - ricorda Biondo - davanti a quelle telecamere non accettò di esibire il proprio dolore e proprio per questo fu trattata male da una certa stampa conformista dell’epoca. Reagì al dolore con grande forza: fece subito un appello per mobilitarsi come cittadini e istituzioni, fondò dopo poco l’associazione a nome del figlio perché nessuna mamma dovesse vivere il dramma che aveva vissuto lei. Fu l’unica diretta di tre giorni che raccontò davvero la realtà: in cui si vide la confusione, la disorganizzazione, la pressione psicologica sui soccorritori e il Paese ne rimase traumatizzato. Fu davvero un racconto della realtà, mentre i reality oggi sono solo finzione”.
Se sul versante della prevenzione c’è ancora molto da lavorare, su quello dei soccorsi “al contrario si sono fatti passi da gigante - sottolinea lo psicanalista - e in Italia dopo quattro decenni è cambiato tanto purtroppo e al tempo stesso grazie a Vermicino. Tutto quello che all’epoca è mancato e che purtroppo, forse, ha generato anche il fallimento del salvataggio di Alfredino è migliorato. Abbiamo imparato che c’era bisogno di un sistema organizzato di soccorsi, un coordinamento tra soccorritori che a Vermicino non c’era”.