Mentre i riflettori politici sono giustamente puntati sulla missione di Anthony Albanese in Cina e si discute sulle priorità del primo ministro - in relazione al quarto incontro di martedì scorso con Xi Jinping che mette ancora più in evidenza l’ancora mancato primo incontro con Donald Trump -, i liberali stanno continuando le loro tormentate riflessioni post-devastazione elettorale. A parte le critiche che lasciano il tempo che trovano ad Albanese su quello che avrebbe dovuto fare e non avrebbe fatto per stabilire chissà quale tipo di rapporto personale con il presidente Usa, la Coalizione è stata pronta ad allinearsi con il governo sulla risposta che è stata finora data alle insistenti richieste di Washington su un futuro coinvolgimento militare dell’Australia, in caso di conflitto con la Cina.

 Una richiesta di garanzie, quella partita dal Pentagono - che l’ha in qualche modo legata all’attuale revisione in corso sul patto AUKUS -, che nessun Paese può dare e che è sembrata quasi una tattica per cercare di interferire in qualche modo nella visita del primo ministro in Cina, inserendo indirettamente nell’agenda del bilaterale la questione di Taiwan. Un’ombra costante su qualsiasi incontro internazionale che vede protagonista Xi, ma Albanese ha ovviamente mantenuto la barra dritta sui temi che voleva toccare, concentrandosi sul dialogo, soprattutto a sfondo commerciale, ristabilito con Pechino, che non ha alcuna intenzione di rimettere a rischio.

Per l’opposizione quindi la solita opportunità di poter dire che si doveva fare di più, che i buoni rapporti con la Cina non devono compromettere gli interessi nazionali ecc. ecc. Dalla sponda da dove è impossibile fare errori, perché non si prendono decisioni, è sempre tutto più facile e si può anche parlare più apertamente del futuro del porto di Darwin (che dovrebbe rientrare sotto il controllo australiano dopo l’errore del contratto di gestione a lunghissimo termine stipulato con la  compagnia cinese Landbridge) o delle esercitazioni militari, senza adeguato preavviso, al largo delle coste australiane. Il primo ministro ha evitato il primo argomento, assicurando che la sua posizione in merito è nota e rimane inalterata (l’interruzione del contratto di affitto faceva parte delle promesse elettorali), mentre ha fatto notare di avere sollevato il tema delle manovre militari, ammettendo che Xi gli ha fatto semplicemente notare: “lo fate anche voi”.  

 Nessuna distrazione “americana” quindi, anche se ovviamente le turbolenze-dazi si sono fatte in qualche modo sentire in quello che Albanese ha definito un “costruttivo dialogo” da portare avanti sempre lasciandosi guidare dalle esigenze del Paese, rispettando il suo quasi slogan nei riattivati rapporti con Pechino del “cooperare su quello che si può, mantenere alcune differenze quando è necessario farlo, ma dialogare sempre nell’interesse nazionale”. E Xi apprezza e l’ha dimostrato – hanno fatto notare gli osservatori che conoscono a fondo il modo di fare del regime – dando la precedenza all’incontro con Albanese rispetto a quelli in programma  con i ministri degli Esteri di partner importanti come India e Russia, invitandolo a pranzo nel dopo colloquio e riservando quattro minuti di copertura, nel telegiornale di maggior peso e ascolto, in prima serata, CCTV News. Non cose da poco, specie dopo gli anni difficili nei rapporti con la Cina dell’amministrazione Morrison.

Coalizione quindi ‘costretta’ ad accettare la svolta vincente di Albanese e rituffarsi nei suoi problemi da risolvere più in fretta possibile. Il ministro ombra della Giustizia, Julian Leeser, non li nasconde e gli ha resi pubblici in un articolo-riflessione pubblicato dal quotidiano nazionale The Australian nel quale ha fatto rilevare che “gli australiani stanno cercando nuovi modi per partecipare alla vita pubblica, basta vedere i dibattiti sui social media, i sempre più numerosi movimenti basati su temi specifici e le dinamiche campagne a livello locale”.  

“Avendo perso 30 seggi nelle ultime due elezioni federali, e con il Partito liberale che in alcune giurisdizioni statali conta il numero più basso di rappresentanti della sua storia, questo è il momento giusto per chiederci se le nostre strutture di partito rispondano davvero ai bisogni dei nostri sostenitori e della comunità più in generale”, ha scritto Leeser.

Il parlamentare, che durante la lunga campagna che ha portato al referendum sulla Voce, si era dimesso dall’incarico nello schieramento ombra in quanto era contrario all’opposizione del suo partito al progetto di riconoscimento costituzionale della popolazione indigena con la creazione di un nuovo ente rappresentativo che avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto con il Parlamento, ha sottolineato il calo generale di adesione ai partiti, un fenomeno che certamente non è esclusivamente australiano.

Negli ultimi 30 anni l’iscrizione è scesa in modo sempre più marcato numericamente, “perché - come ha fatto rilevare l’ex primo ministro John Howard, almeno per ciò che riguarda l’Australia – i partiti hanno smesso di rappresentare in modo ampio e autentico le diverse correnti di opinione politica ed economica nella comunità, impegnate nel raggiungimento di specifici obiettivi di politica pubblica, come invece avveniva un tempo”.

I termini del sodalizio elettori-partiti sono insomma molto cambiati: c'è ormai solo in minima parte un collante ideologico e tutto è diventato sempre più liquido, fluttuante e instabile. Una nuova realtà che incide maggiormente, almeno come risultati elettorali, sui liberali perché i laburisti, alla fine, in qualche modo i voti li recuperano grazie al sistema delle ‘preferenze’ che forzano una spartizione di tutti gli altri voti.

Proprio per questo, sostiene Leeser, c’è un urgente bisogno di rafforzare l’organizzazione sul territorio. “Il Partito liberale è, e deve anche apparire, come un partito aperto alla comunità, in cui le persone di talento abbiano un percorso chiaro e giusto per farsi avanti. Per questo motivo, da tempo, sostengo la necessità di sperimentare le primarie in stile statunitense”, ha scritto il portavoce ombra della Giustizia. Una innovazione che, in teoria, dovrebbero fornire ai cittadini qualche garanzia sul candidato prescelto, che dovrebbe mostrare di essersi guadagnato sul campo la fiducia accordatagli dal partito. Per arrivare alla nomina, infatti, i ‘pretendenti’ dovrebbero dimostrare delle capacità organizzative, creare un certo seguito e sostegno, generando qualche entusiasmo e partecipazione attiva. Una gara di selezione ‘in famiglia’ che dovrebbe portare ad una giornata di voto, in un luogo centrale, o in più sedi distribuite nell’elettorato.  

Una mini-campagna interna, quindi, per rafforzare il ruolo del prescelto senza corsie agevolate, quote rose ecc.. Indispensabile comunque fissare delle regole del gioco che non creino vantaggiati o svantaggiati, all’insegna delle possibilità finanziarie dei ‘concorrenti’.

Secondo Leeser si dovrebbe tentare, sperimentando il metodo partendo da un paio di collegi, di rivitalizzare l’interesse per la politica di partito: un esperimento che potrebbero indicare l’effettiva fattibilità della svolta, facendo capire cosa funziona e cosa no.

Con il Partito liberale nelle condizioni di seguito in cui si ritrova, ogni opzione dovrebbe essere presa seriamente in considerazione. In modo particolare nel Victoria dove, nonostante l’incredibile impopolarità dell’amministrazione laburista, i sondaggi continuano ad indicare una possibilissima riconferma, il prossimo anno, del governo Allan perché l’opposizione continua imperterrita le sue guerre interne dimenticando quei “valori senza tempo” di cui parla nella sua riflessione Leeser: “Il merito, la libertà individuale, la parità di opportunità, la responsabilità personale, famiglie e comunità forti, solo per citarne alcuni”.

La sfida è però comunicarlo agli elettori e diventa praticamente impossibile se non si riesce a comunicarlo nemmeno in casa propria: l’aspirante premier Brad Battin, la perennemente ‘offesa’ Moyra Deeming, la ‘costituzionalista amministrativa’ del partito, Colleen Harkin (che ha ottenuto un prolungamento dei tormenti giudiziari per le beghe in famiglia) e colleghi vari sono infatti ancora lì’, politicamente semiparalizzati dall’infinito  ‘caso Pesutto’ che sta incredibilmente compromettendo le loro sempre più striminzite sorti elettorali. 

La disfatta federale dello scorso 3 maggio parte proprio dall’incredibile, per i liberali, situazione del partito nel Victoria  - lo Stato che più di ogni altro, data la più che discutibile e discussa gestione laburista tra debito e insoddisfazione generale, offriva ampie possibilità di recupero – dove Dutton & Co. sono riusciti addirittura a perdere voti. Se non si riparte proprio da qui, il prossimo anno, le revisioni liberali diventeranno un rituale triennale.