ROMA - Sui referendum dell’8 e 9 giugno riguardanti il Jobs Act, i riformisti del Pd esercitano libertà di coscienza.  

Durante una riunione della minoranza interna, il tema dei tre quesiti sulla legge simbolo dell’era renziana è stato affrontato ma non si è arrivati a una linea univoca, anche se l’orientamento prevalente è votare sì ai referendum su cittadinanza e responsabilità dell’impresa committente, e non votare o votare no a quelli sul Jobs Act che riguardano licenziamenti illegittimi, indennità nelle piccole imprese e contratti a termine. 

“Ognuno ha una sua posizione e si esprimerà secondo la propria storia”, riferisce un esponente della minoranza dem, anche se la segretaria Elly Schlein ha invece firmato tutti e cinque i quesiti, schierandosi per il sì su tutta la linea. 

Stefano Bonaccini, presidente del Pd e riferimento della corrente riformista, ha frenato sull’idea di una linea alternativa alla segreteria, e la stessa Schlein ha chiarito in direzione che “non saranno chieste abiure a nessuno”.  

La maggioranza interna insiste che i referendum non siano una rivincita sul Jobs Act, ma l’occasione per archiviare un modello di flessibilità che ha svalutato il lavoro. “Finita la spinta degli incentivi, è mancata la stabilizzazione. Ora la priorità è la valorizzazione del lavoro”, conferma Andrea Orlando. 

Per Schlein, il voto dell’8 e 9 giugno è anche una prova interna: se la partecipazione sarà alta, anche senza quorum, avrà dimostrato di saper mobilitare l’elettorato su un tema identitario.  

Tuttavia, i riformisti avvertono che se la segretaria intende farne un test personale, l’assenza di quorum apparirebbe come una sua sconfitta, ma se invece i referendum andranno bene, Schlein potrà affrontare con più forza la campagna per le regionali d’autunno, dopo un buon risultato alle amministrative di maggio.