“‘Quelli della notte’ è il secondo marchio televisivo più popolare dopo ‘Lascia o raddoppia’, e oggi sarebbe impossibile replicarlo perché nel panorama televisivo mancano degli improvvisatori come quelli su cui ho puto contare io. Con i vari Nino Frassica, Andy Luotto, Riccardo Pazzaglia, Massimo Catalano, Maurizio Ferrini, Marisa Laurito, Simona Marchini, abbiamo dato vita al primo varietà improvvisato in un’epoca in cui il varietà televisivo era quello tradizionale, sottoposto a rigide prove, di Antonello Falqui”.

Così Renzo Arbore rievoca il suo programma cult “Quelli della notte” a 35 anni dalla sua messa in onda. Scritto da lui e Ugo Porcelli, innovativamente programmato dal lunedì al venerdì alle 23,10 per un’ora e mezzo, “un orario in cui a quei tempi si andava a dormire, non esisteva la seconda serata”, il programma, oggi disponibile su RaiPlay, nacque con la benedizione dell’allora direttore di Raidue Giovanni Minoli: “Mi chiedeva delle idee, gli spiegai che volevo fare un programma notturno con personalità nuove e coraggiosamente disse subito di sì”.

Arbore racconta di essere stato il primo a stupirsi di un successo “epidemico” (arrivò a punte del 51% di share, i suoi tormentoni linguistici sono ancora in voga così come la sigla di apertura “Ma la notte no”): “Anche perché lo pensai in fretta per riavvicinarmi ai giovani a cui avevo sempre dedicato i miei programmi, dai quali mi ero allontanato l’anno prima con il successo di ‘Cari amici vicini e lontani’, il mio primo programma nostalgia sui 60 anni della radio”.

Inizialmente, racconta, aveva pensato di chiamarlo “Il tiratardi”, poi virò subito su “Quelli della notte”. “L’idea forte di partenza era quella di un programma con il pubblico e un gruppo di protagonisti praticamente sconosciuti in tv - racconta ancora - forse era stato già visto un po’ solo Luotto, l’unico noto insomma ero io”.

Per scegliere si affidò alla sua agendina “dove c’erano solo persone in piena sintonia con me: Ferrini era totalmente nuovo, gli affidammo il ruolo del romagnolo rappresentante di pedalò e il suo personaggio anticipò pure Umberto Bossi dicendo che voleva alzare un muro anti-meridionali ad Ancona; Pazzaglia era l’intellettuale che tentava vanamente di alzare il livello dei nostri discorsi: gli dissi che doveva ispirarsi ad Alberto Ronchey”.

E ancora: “Frassica con il suo frate Antonino da Scasazza fu il primo a indossare una tonaca in tv, allora non si scherzava sulle religioni; la Marchini, che impersonava la segretaria, la prima a parlare di gossip con le sue digressioni telefoniche sulle cronache dei rotocalchi da parrucchiere, il fidanzato di Milva, il figlio di Gino Bramieri”.

L’imperativo era “improvvisare”, insiste Arbore. “Lavorammo preventivamente solo una settimana a casa mia per l’attribuzione dei ruoli - spiega - qualche giorno prima del debutto, per togliere la connotazione attoriale a quelli che lo erano, come la Laurito che interpretava mia cugina, una che non sapeva tenersi un cecio in bocca e parlava sempre del suo amore, e farli diventare improvvisatori”.

“Facemmo prove di conversazione - prosegue - ero fissato con il jazz e avevo deciso che quel programma in diretta doveva essere una sorta di jam session. Facevamo goliardia, ma senza volgarità, era una goliardia di persone intelligenti e colte che si divertivano a scherzare con il basso, oggi purtroppo sono rimasti in pochi a praticarla”.

Il modello erano le feste a casa Arbore dove, racconta “arrivava gente, si suonava e si dicevano stupidaggini” e il programma ricalcò quell’atmosfera casalinga anche nella scenografia: “Andavamo in onda dallo studio A di via Teulada, ma ne utilizzavamo metà proprio per riproporre un modello casalingo, agli spettatori dicevano proprio che si trattava del mio salotto”.

Arbore aveva scelto personalmente anche la regista debuttante Rita Vicario, che indirizzava le telecamere “a casaccio, un po’ su uno un po’ sull’altro”. Funzionò: “In due o tre giorni facemmo già ascolti altissimi, la gente andava a dormire e poi magari si rialzava per vederci, le battute linguistiche diventarono subito dei tormentoni”, ricorda, dal “Non capisco ma mi adeguo” di Ferrini, al “brodo primordiale” di Pazzaglia, passando per i “nanetti”, gli aneddoti di Frassica.

Roberto D’Agostino debuttò come “lookologo” (“e portò come modello perfino l’ex assessore alla cultura di Roma Renato Nicolini”). Arbore pensava inizialmente che “Quelli della notte” avrebbe fatto presa essenzialmente sui giovani “invece diventò presto un’abitudine, un appuntamento fisso in stile ‘Alto Gradimento’”.

I resoconti dell’Auditel non gli interessavano, dice: “Adesso si bada soprattutto agli ascolti, io puntavo al ‘pubblico scelto’ che non significa colto, ma sveglio, anzi ‘scetato’ per usare un termine napoletano che mi piace parecchio. Avevo un pubblico elitario che si appassionava magari a Pazzaglia e uno più popolare che andava matto per gli svarioni di Frassica”.

L’unica battuta d’arresto del programma, che andò in onda per 33 puntate, avvenne dopo la strage dell’Heysel: “Ritenemmo doveroso non andare in onda”, ricorda. Si rischiò poi un incidente diplomatico, dovuto al personaggio di Luotto vestito da arabo che parlava una lingua tutta sua, fantasiosa. “Le comunità arabe non capirono l’affettuosità - ricorda Arbore - successe che il re di Giordania si lamentò e così Luotto cambiò personaggio e divenne un italoamericano”. Arbore oggi rimpiange il gruppo a partire dagli amici colleghi che non ci sono più, come Pazzaglia e Catalano: “Noi ci divertivamo davvero insieme, è stato un periodo bellissimo della mia vita”.