ROMA - Il riarmo europeo è “un primo passo necessario” ma poi, “subito, un unico comando con un’unica strategia per un unico esercito” europeo. Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio, ed ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi.
“Il riarmo – ha spiegato Prodi – è una tappa per arrivare alla difesa comune: questo mi auguro, vedo e spero. Sono anni che predico la difesa comune; è necessario andare in questa direzione. Quando la Russia attaccò l’Ucraina mi dissi: ‘Se avessimo avuto un esercito comune, non lo avrebbe fatto’. Poi l’America ha unito gli europei dietro di sé. Ora si deve cominciare con quello che si può fare oggi; poi, subito dopo, un comando unico. Dentro o fuori della Nato, lo diranno le circostanze”.
Secondo l’ex premier si deve procedere con chi ci sta, perché “l’unanimità è antidemocratica” e lo stallo dev’essere superato con le “maggioranze qualificate”, come è stato fatto con l’euro.
“Orbán non vuole l’esercito europeo? Stia fuori”, ha detto ancora Prodi. Certo, non si potrà fare un esercito “in cui uno comanda e l’altro paga, come la Francia che ha le testate atomiche e il diritto di veto all’Onu, e la Germania che non ha né le une né l’altro, ma un budget di spese per la difesa doppio rispetto a quello di Parigi”.
Prodi ha anche avuto parole dure per il “cinismo” di Trump nei confronti di Zelensky. “Lui e il suo vicepresidente come Gianni e Pinotto – ha sottolineato l’ex leader dell’Ulivo –. [L’esercito comune sarebbe, dunque, il migliore strumento per] garantire la nostra sicurezza, con spese limitate e nella tutela dei diritti maturati e delle conquiste democratiche. [E se fosse stato al posto di von der Leyen] sarei partito dalle difesa comune [e non dal riarmo, ma] siamo onesti: questo è un passo che può spingere alla difesa comune. [Quella in cui] c’è un comando comune a cui tutti partecipano. Capisco che ci voglia tempo, ma nei prossimi giorni mi aspetto più politica e meno armi”.
Insomma, il dibattito all’interno del Partito Democratico, per non parlare dell’intero schieramento di centrosinistra, dove le posizioni si diversificano ulteriormente, è più vivo che mai. Dentro il principale partito di opposizione, la linea della segretaria Elly Schlein, contraria in principio, spinge l’ala riformista, incarnata da Alessandro Alfieri, a guardare alle correnti più moderate, che virano al centro: a Paolo Gentiloni e a Lorenzo Guerini (quest’ultimo ex ministro della Difesa, tra l’altro, e presidente del Copasir).
In una posizione scomoda si è messo il capo della minoranza, Stefano Bonaccini, che, pur facendo riferimento ai riformisti, ha ribadito il concetto espresso da Schlein sul “no” al riarmo.
Intanto, “congresso straordinario”, le parole che nessuno nel Pd osa pronunciare, le ha fatte mettere nero su bianco Luigi Zanda, che del partito è stato co-fondatore. “Davanti alla straordinarietà della fase storica che stiamo vivendo e dunque al bisogno urgente e assoluto per il Pd di darsi una linea chiara sulla politica internazionale ed europea, l’unico luogo nel quale un dibattito di questo rilievo possa svolgersi in modo franco e trasparente è un congresso straordinario”, ha spiegato.
Il riferimento è a quanto ha fatto vedere il partito prima e durante il Consiglio europeo che ha discusso del piano di riarmo presentato da Ursula von der Leyen. Da una parte, come detto, la linea della segretaria Schlein, contraria al piano; dall’altra, quella della minoranza dem, favorevole a quello che definiscono un “passo avanti” in direzione di una vera difesa comune. Una linea, questa, più vicina a quella del gruppo europeo S&D al quale il Pd appartiene.
Il confronto interno sul ReArm, tuttavia, non esaurisce i nodi sul tavolo della Segretaria. Il partito ha visto, nei giorni scorsi, l’uscita di Annamaria Furlan, passata a Italia Viva. Una scelta che la Senatrice ha spiegato con le differenze di vedute su temi per lei fondamentali, come il lavoro.
Furlan, infatti, è stata protagonista di una lunga e accesa assemblea dei gruppi congiunti alla vigilia del voto dell’aula di Montecitorio sulla proposta di legge presentata dalla Cisl che prevede la partecipazione dei lavoratori alla governance delle aziende. Furlan, e con lei un gruppo di parlamentari della minoranza interna (ma non solo), si è battuta per portare la linea del partito a non bocciare del tutto la proposta, così da “non sbattere la porta in faccia” alla Cisl.
Al termine dell’assemblea, però, la linea della segretaria Schlein e di tutta la maggioranza è rimasta quella del “no” alla legge. In Aula, poi, l’apertura ad alcune modifiche, arrivata dalla maggioranza, ha portato i dem ad astenersi. Ma a quel punto lo strappo, per Furlan, era compiuto.
Nessuno, però, si era mai spinto a invocare il congresso. Fino a oggi. E questo, ha spiegato una fonte parlamentare di minoranza, per almeno tre ragioni. La prima è la forza elettorale mostrata da Schlein nelle ultime tornate, con il partito che ha guadagnato circa 10 punti dal 2022. La seconda è il consenso che viene attribuito ancora alla Segretaria e che scoraggia “colpi di mano” sulla leadership. Infine, la terza ragione, più prosaica, è che le liste elettorali per le prossime politiche sono in mano a Schlein e, senza una sicura alternativa, in pochi si sentono di metterne in discussione la guida.