Sussan Ley ha davanti a sé una battaglia che non può vincere e, a prescindere dalla decisione che arriverà, la sua leadership diventerà ancora più instabile perché le divisioni interne, che stanno lacerando il Partito liberale, continueranno. Il ‘sì’ che probabilmente uscirà dallo struggente dibattito in corso sull’abbandono del traguardo delle emissioni zero del 2050, nonostante l’appoggio della maggioranza dei suoi colleghi, non aiuterà la leader dell’opposizione, che sarà comunque accusata di avere aspettato troppo e di avere lasciato ai partner minori della Coalizione l’opportunità di aprire e guidare il dibattito stesso.  Se, invece, avranno la meglio i moderati, che sostengono che un cambiamento di rotta in campo ambientale sarebbe un suicidio politico, Ley sarà comunque accusata di una mancanza di autorità e capacità di arrivare a decisioni condivise e sarà ritenuta la responsabile di un’inevitabile rottura con i nazionali.

Una possibilità che proprio ieri James Patterson - uno dei pochi che all’interno della squadra liberale sembra muoversi con una certa autorevolezza e capacità di farsi ascoltare – ha cercato di scongiurare, dichiarando che il suo partito deve recuperare terreno nei collegi metropolitani sotto assedio non dei laburisti, ma della nuova formazione di indipendenti sponsorizzata da Climate-200, ma che allo stesso tempo è indispensabile tenere unita la Coalizione.

Il senatore ha perciò spiegato la necessità di trovare un giusto equilibrio in campo energetico per soddisfare le esigenze di un elettorato diverso nelle diverse aree del Paese, che chiede di mantenere l’impegno di combattere i cambiamenti climatici, ma di farlo senza dover chiedere ai cittadini sforzi e sacrifici extra rispetto a quello che viene fatto a livello globale.

Paterson ha anche ricordato che, solo dieci mesi fa, i liberali erano testa a testa con i laburisti, ma che poi l’autenticità del partito è venuta meno inseguendo consensi senza mantenere una chiara direzione di rotta. In altre parole, ha auspicato un ‘sì’ ben spiegato per evitare di deludere le aspettative degli elettori conservatori e, soprattutto, una frattura ancora più netta fra le due correnti che da sempre convivono all’interno del Partito liberale. 

Sussan Ley, come ci ha più volte ricordato (un po’ come ha sempre fatto Albanese con le sue umili origini, la madre sola, l’infanzia nelle case popolari), è stata una pilota di aerei, una ‘punk’, un controllore di volo, prima di intraprendere una carriera politica di successo. E’ la prima donna alla guida dei liberali a livello federale, ma finora, a parte l’indubbia gentilezza e sobrietà nei toni, non ha dimostrato particolari qualità in fatto di leadership, uscendo sempre piuttosto ammaccata da mini-crisi interne come nel caso del passaggio sui banchi dell’anonimato (per ciò che riguarda uno specifico ruolo nello schieramento ombra) di due colleghi di sicuro peso mediatico come Jacinta Nampijinpa Price e Andrew Hastie.

Due addii (uno richiesto, l’altro che, nonostante i preavvisi, non era stato anticipato) importanti, che hanno indebolito l’autorità della leader dell’opposizione, che è andata poi a cercarsi altre complicazioni con un paio di imbarazzanti decisioni su attacchi, inutili e stonati, su argomenti che poteva tranquillamente evitare di affrontare: la richiesta rumorosa e inappropriata (con tanto di pasticciato tentativo di fare marcia indietro a tempo scaduto) di richiamo dell’ambasciatore a Washington, Kevin Rudd, dopo la visita di successo di Anthony Albanese alla Casa Bianca, a cui ha fatto seguito un ancora più inopportuno (per l’irrilevanza del tema) rimprovero al primo ministro per una maglietta da teenager indossata al ritorno da una missione internazionale.

Due richieste - dalle quali molti colleghi hanno preso, abbastanza pubblicamente e molto chiaramente, le distanze - per cercare di ammiccarsi un pubblico conservatore immaginario, in quanto quello reale si aspetta, invece, che Ley metta il punto su un’infinita analisi della sconfitta di maggio, che sembra tenere il partito al palo sul fronte programmatico, e comincia ad incidere veramente sul dibattito politico in Aula e in pubblico.

Quando, dopo una sconfitta record, il partito ha scelto di voltare pagina puntando su una donna per cercare di dare un’immagine diversa, più al passo con i tempi e le aspettative di rinnovamento da parte di un elettorato sempre meno legato ad un preciso credo politico, Ley ha subito cercato di posizionarsi con una frase, che pensava ad effetto, dicendo di voler “incontrare gli australiani dove si trovano”. Non è diventata alcuna bandiera di riscossa, ma era una promessa, da far diventare slogan (tentativo non riuscito), per riavvicinarsi agli elettori parlando direttamente con loro delle cose che li riguardano.

Finora non l’ha sicuramente fatto. In tutti questi mesi ha parlato invece, soprattutto, con i suoi colleghi per cercare di tenere la squadra unita, ma siamo ben lontani da quell’invito al ‘ricompattarsi’ rivolto al partito dall’ex primo ministro John Howard, che sembra essere l’unico ad avere ancora le idee chiare, che possono piacere o non piacere, nel mondo liberale.

Ley in questi sei mesi al timone dell’opposizione ha parlato spesso di intenzioni - spesso già sentite - piuttosto logiche, ma puntualmente vaghe: meno tasse, più produttività, meno spesa pubblica, energia a prezzi accessibili. Tutto giusto, tutto condivisibile, ma come arrivarci è un’altra cosa. Dopo la presentazione degli intenti (anche in un atteso intervento pubblico, quasi immediatamente dimenticato dai media e dagli elettori), nessun seguito e ritorno immediato alle scaramucce interne. La leader dell’opposizione non sembra riuscire non solo ad attirare l’attenzione del pubblico, ma anche quella dei colleghi, per cercare di riportare un minimo di disciplina all’interno di una squadra che non sembra trovare di meglio che ritornare a rimuginare su un tema che la tormenta, come ha fatto osservare Albanese in Aula, da quasi vent’anni, passando attraverso varie lotte intestine che hanno contribuito alla lunga stagione delle porte girevoli al vertice e delle sconfitte elettorali che hanno avuto, via via, come protagonisti: Tony Abbott, Malcolm Turnbull, Scott Morrison e Peter Dutton, oltre che a far perdere il seggio ad un potenziale leader di un certo spessore, come Josh Frydenberg.

Vent’anni dopo, effettivamente, siamo ancora qui a parlare della strada da seguire per tagliare le emissioni, di accordi internazionali da rispettare o meno (dopo Kyoto, Parigi) e strategie da seguire scegliendo il ruolo di battistrada o semplicemente quello del non farsi del male, optando per il procedere al passo, non certo di corsa, del resto del mondo. Sicuramente ci sarebbero molte più opportunità di diventare una vera alternativa di governo senza andare a cercare per forza un differenziamento massimo con il militantismo di Chris Bowen, puntando sulla praticità di costi energetici da far rientrare, senza per questo rinunciare ad obiettivi magari da ridimensionare con ragionate spiegazioni, evitando di far gridare al negazionismo o ad accuse di frenate in stile Trump.

Energia e inflazione strettamente legati, problema produttività ignorato, capitolo immigrazione da aprire con un po’ di maggiore serenità, onestà e visione di quanto fatto finora su entrambi i fronti politici, relazioni industriali, riforme fiscali dalle quali non è necessariamente saggio escludere a priori la GST, crisi vera o ingigantita degli alloggi, sempre sanità e scuola: era necessario, per ripartire, tuffarsi prima di tutto sullo zero netto delle emissioni del 2050?  Come si può pensare che promettendo di riparlare di gas, carbone e centrali nucleari improvvisamente qualcuno che ha votato per i laburisti, i verdi, la squadra non squadra teal e indipendenti vari, improvvisamente rivolga le sue attenzioni verso i liberali o i nazionali? Ricominciare da zero va bene, ma in questo caso è uno zero elettoralmente sbagliato.