La tre giorni di lavori della tavola rotonda svoltasi a Canberra la scorsa settimana ha rappresentato un passaggio significativo, seppur interlocutorio, nel dibattito sulle riforme di cui l’Australia ha urgente bisogno.
Non è stato un appuntamento risolutivo, né poteva esserlo: mancavano sul tavolo i presupposti politici per decisioni definitive e la stessa impostazione del governo era chiaramente orientata a un esercizio di ascolto e di costruzione di consenso, più che a un’immediata definizione di misure.
E tuttavia, da queste giornate emerge un quadro che merita attenzione: siamo un Paese che fatica a riconoscere fino in fondo la portata dei cambiamenti strutturali in atto, ma che al tempo stesso comincia a percepire che la rendita di posizione accumulata negli ultimi decenni non potrà reggere di fronte alla pressione demografica, alla crisi climatica e a una distribuzione sempre meno equa delle risorse.
Il segnale più netto sul tema è arrivato, ancora una volta, dalla presidente della Productivity Commission, Danielle Wood, che ha ricordato senza giri di parole come i trentenni di oggi siano la prima generazione a stare peggio dei loro genitori sotto molteplici aspetti: reddito, casa, prospettive ambientali, peso fiscale.
È un dato che dovrebbe scuotere le coscienze politiche, e che invece viene ancora affrontato con prudenza tattica, come se il riconoscimento stesso del problema fosse già un rischio eccessivo. Wood ha messo in evidenza ciò che molti giovani percepiscono ogni giorno: l’impossibilità di accedere al mercato immobiliare, la pressione crescente di un sistema fiscale che grava principalmente sul lavoro dipendente, le difficoltà di costruirsi un futuro in un contesto che sembra premiare le rendite accumulate nel passato più che la produttività del presente.
È un grido generazionale che chiede riforme e che trova un Paese bloccato, paralizzato da interessi consolidati e da una politica spesso più attenta a non perdere consenso che a costruire una visione.
Il nodo della riforma fiscale, non a caso, è stato il tema centrale. I numeri raccontano con chiarezza: l’Australia è un Paese a bassa pressione fiscale nel confronto internazionale, ma con un sistema squilibrato. Si tassa molto il lavoro e si premiano eccessivamente i redditi da capitale, gli investimenti immobiliari, le plusvalenze, i risparmi accumulati nella superannuation. Il risultato è che due famiglie con lo stesso reddito possono contribuire in misura radicalmente diversa al gettito, con i lavoratori dipendenti a sopportare la parte più pesante e chi dispone di patrimoni e strumenti di ottimizzazione a ridurre drasticamente l’imposizione.
Questa iniquità mina le basi stesse della fiducia nel patto sociale. È significativo che persino il tesoriere Jim Chalmers, pur restando cauto, abbia ammesso che il processo avviato da questa assise economica influenzerà i prossimi tre bilanci federali e che la questione fiscale non potrà più essere confinata nella categoria delle riforme “troppo difficili”. È il riconoscimento implicito che un ciclo si è chiuso: non basterà più ritoccare aliquote o concedere sgravi episodici, serve una revisione sistemica.
E tuttavia, proprio sul terreno delle riforme fiscali si misura l’enorme divario fra la consapevolezza tecnica e il coraggio politico. Da più parti è ormai da tempo che si indicano soluzioni: riduzione delle agevolazioni sulle plusvalenze, revisione delle concessioni nella superannuation, almeno una tassazione parziale dei grandi redditi in pensione, contrasto all’abuso dei trust. Tutto ciò è noto, studiato, quantificato.
Ma ogni tentativo di intervenire incontra l’opposizione immediata di segmenti ben organizzati dell’elettorato, dai grandi proprietari immobiliari a quei pochi, ma potenti, pensionati molto capitalizzati, e viene abbandonato prima ancora di essere discusso pubblicamente. Non è un caso che negli ultimi vent’anni il sistema sia diventato sempre più squilibrato: l’inerzia è il frutto della paura di pagare un prezzo politico. La tavola rotonda, almeno, ha riaperto il discorso, anche se resta da capire se il governo avrà la forza di trasformare questa fase di ascolto in un percorso di riforma concreta.
Il ruolo dei sindacati in questo contesto ha mostrato quanto sia cambiata la dinamica del secondo mandato Albanese rispetto al primo. L’ACTU era arrivata alla tre giorni di Canberra con un’ambiziosa agenda – settimana corta, regolamentazione dell’intelligenza artificiale, contributo delle imprese per finanziare la formazione – ma ha trovato scarso ascolto sia presso il governo sia tra gli imprenditori. Persino le proposte apparentemente più ragionevoli, come la richiesta di accordi obbligatori per consultare i lavoratori prima dell’introduzione di nuove tecnologie, sono state respinte come impraticabili.
La reazione di Anthony Albanese alla proposta di una settimana lavorativa di quattro giorni è stata lapidaria: “Molte persone vorrebbero una settimana lavorativa di cinque giorni”, ha detto, liquidando l’ipotesi con una modalità che segnala una sorta di distanza culturale fra il governo e i sindacati.
Non è un dettaglio: significa che il baricentro della politica economica laburista si è spostato, lasciando meno spazio alle istanze del movimento dei lavoratori e più enfasi sulla produttività e sugli incentivi agli investimenti. Il sindacato, che in diversi momenti nel corso del primo mandato era uscito vincitore, oggi appare invece più isolato e indebolito.
Se i sindacati non hanno trovato ascolto, le imprese hanno giocato sulla difensiva. Molti rappresentanti si sono opposti a nuove forme di tassazione o a maggiori vincoli regolatori, respingendo in particolare l’ipotesi di un prelievo per la formazione e l’idea di una regolamentazione più stringente sull’intelligenza artificiale.
La contrapposizione iniziale su lavoro da remoto, orari e adozione dell’IA ha reso evidente come l’agenda della tavola rotonda rischiasse di arenarsi prima ancora di iniziare. Eppure, il mondo imprenditoriale dovrebbe essere il primo a comprendere che senza un quadro fiscale e regolatorio equo e sostenibile non ci sarà crescita né stabilità. Continuare a difendere privilegi immediati significa ignorare che le sfide future – invecchiamento, transizione energetica, cambiamenti geopolitici – richiederanno investimenti imponenti e un capitale sociale saldo, due condizioni impossibili da ottenere senza riforme coraggiose.
In questo senso, la tavola rotonda ha funzionato come uno specchio: ha riflesso la difficoltà dell’Australia di uscire da un approccio basato sulla tutela degli interessi consolidati, per abbracciare una prospettiva di bene collettivo. Ogni tema discusso – dalla casa alla tassazione, dalla produttività alla transizione climatica – è stato filtrato attraverso la lente del “cosa ci guadagno io?”.
Andando anvanti così rischiamo di bloccarci. Siamo nel campo della contrapposizione non solo ideologica ma anche generazionale, che impedisce di costruire compromessi duraturi. Eppure, è proprio di compromesso che l’Australia ha bisogno. Non un compromesso al ribasso, ma la consapevolezza che nessuna riforma può produrre solo benefici senza costi, che ogni scelta comporta conseguenze, e che la responsabilità della politica sta nel riconoscere questi costi e nel costruire meccanismi di compensazione adeguati.
La strada, insomma, non è quella del rinvio, ma della chiarezza: dire la verità agli elettori, ammettere che le rendite accumulate non sono eterne e che il Paese ha bisogno di redistribuire i sacrifici per poter crescere.
Alla fine, il bilancio della tavola rotonda è quello di un inizio, non di una conclusione. Non ci sono state decisioni epocali, ma si è aperto un percorso. Per il governo, la sfida sarà trasformare questa fase di discussione in un’agenda concreta, capace di incidere prima che l’erosione del consenso renda impossibile ogni movimento.
Per l’opposizione, che ha liquidato l’iniziativa come un esercizio sterile, il rischio è di apparire incapace di proporre alternative credibili, un’incapacità che è già costata molto cara alle ultime elezioni. Per i sindacati, il compito sarà ricalibrare le proprie richieste in un contesto politico forse oggi meno favorevole.