WASHINGTON - La motivazione della richiesta va trovata nelle leggi che, a loro dire, costringono le aziende americane a pagare “centinaia di milioni di dollari” in Australia.
La Computer and Communications Industry Association (CCIA) ha presentato la sua richiesta all’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, discutendo il nuovo ciclo di dazi doganali che entrerà in vigore il 2 aprile. Sebbene la CCIA si sia dichiarata contraria ai dazi, ha esortato il governo americano a prendere di mira i paesi con leggi digitali e sui social media simili a quelle australiane, sostenendo che ostacolano le condizioni commerciali.
“L’obiettivo principale non dovrebbe essere imporre restrizioni sui prodotti o servizi stranieri, ma piuttosto rimuovere le barriere - si legge nella richiesta -. L’imposizione di misure reciproche mirate, sebbene talvolta necessaria come strumento negoziale, comporta costi e conseguenze indesiderate, tra cui l’aumento dei costi di produzione per l’industria manifatturiera e dei servizi locali, oltre a penalizzare le esportazioni”.
La CCIA ha inoltre sollecitato l’Amministrazione Trump a contrastare le leggi estere che, a suo avviso, impongono prelievi alle aziende digitali americane per “sovvenzionare” l’industria locale.
“L’estrazione e la redistribuzione di entrate dai fornitori digitali statunitensi alle imprese di informazione australiane sono stimate in un costo annuo di 140 milioni di dollari americani (222,3 milioni di dollari australiani)”, sostiene il documento.
Il costo potrebbe aumentare ulteriormente se l’Australia introducesse una nuova tassa sugli incentivi. Il Codice australiano di contrattazione per i media richiede che le piattaforme digitali paghino gli editori locali per i contenuti.
Non è chiaro se il governo statunitense prenderà provvedimenti sulla faccenda, anche perché un dazio sulle esportazioni tecnologiche australiane potrebbe avere un impatto limitato.