TRIESTE – Aveva 23 anni, Rodrigo Díaz quando, l’11 settembre 1973, il generale Augusto Pinochet rovesció con un golpe il governo democraticamente eletto di Salvador Allende.

“Nei dieci precedenti, i più formativi nell’esistenza di una persona, avevo vissuto una fase entusiasmante della storia cilena – ricorda –. Non solo l’elezione di Allende, che credeva che il socialismo andasse costruito con il consenso del popolo, ma anche il precedente governo di Eduardo Freire, un democristiano vicino alla dottrina sociale della Chiesa e ai movimenti cristiani di base”.

Subito dopo il colpo di Stato, Rodrigo – che viveva a Santiago, la capitale – fu arrestato e detenuto due volte (la prima appena una settimana dopo l’avvento al potere di Pinochet). E per due volte si è salvato.

“Tutto dipendeva da come riuscivi a relazionarti con i militari – racconta –. Io capii che il linguaggio era fondamentale”.

Rodrigo lavorava come correttore di bozze alla casa editrice nazionale Quimantú, creata nel 1971 dallo stesso Allende per democratizzare l’accesso alla lettura attraverso la distribuzione di libri a lavoratori, studenti e bambini.

Sapeva bene che una parola poteva fare la differenza, decidere per la vita o per la morte.

“Malgrado le torture, sono riuscito a mantenermi lucido e convincere i militari che ero solo un poveraccio con cui non valeva la pena perdere tempo – continua Rodrigo –. Ripetevo continuamente la parola ‘patria’ perché sapevo che su di loro aveva una certa presa. E per ben due volte mi sono salvato”.

Casualità. Forse.

Dei giorni del golpe restano le immagini dei bombardamenti sulla Moneda (la sede del Governo), la registrazione dell’ultimo messaggio inviato da Allende via radio al popolo cileno, i rastrellamenti per le strade, gli stadi usati come campi di concentramento. Il funerale di Pablo Neruda, morto di cancro il 23 settembre di quello stesso anno, al quale parteciparono tanti cileni coraggiosi, ben sapendo che la polizia li avrebbe identificati e schedati.

Fiori in memoria di Allende nell’anniversario del golpe. (Foto: Ansa)

Rodrigo entra a far parte di un elenco di cileni ad alto rischio di vita realizzato dall’Acnur, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Persone che avevano necessità di espatriare prima possibile, perché restare nel Paese sarebbe stato molto pericoloso.

“I fondi per farci partire finirono in fretta, ma ci fu una campagna di solidarietà per trovare persone o associazioni disponibili a comprarci il biglietto aereo – dice Díaz –. Il mio fu pagato, per pura casualità perché i benefattori non potevano scegliere chi salvare, da Lietta D’Amico, nipote di Luigi Pirandello”.

Un’altra casualità. O forse no.

Era il 1974 e per Rodrigo comincia un’altra fase della vita. Si sistema a Roma e comincia lavorare per le Acli, il movimento cristiano dei lavoratori. Ci resterà 13 anni. È durante quel periodo che nasce il progetto del Festival del cinema ibero-latino americano, di cui è direttore artistico e che ora si svolge a Trieste (quest’anno dal 13 al 20 ottobre).

“L’idea era aprire un dialogo, attraverso il cinema, tra diverse culture – spiega –. Quando abbiamo iniziato non c’erano Internet, le piattaforme, nemmeno i fax! L’unico modo per scegliere i film era andare a vederli di persona, per andai al Festival del cinema latinoamericano dell’Havana, con viaggio, vitto e alloggio offerto dai cubani”. Un’occasione, anche politica, per lo stesso mondo cattolico italiano.

“All’Italia devo tantissimo – dice –. Non solo la vita. Ma anche opportunità professionali. Io, straniero, che avevo solo un progetto e tanta voglia di lavorare”.

Díaz (a destra) con il regista argentino Manuel Antín (al centro). 

In Cile, Rodrigo Díaz è tornato due volte. Nel 1993, per il Festival di cinema di Viña del Mar, poi nel 2022, per prendere accordi con la Fundación Allende. “E creare un premio a suo nome da consegnare durante il Festival di Trieste a un artista che si è distinto nella difesa dei diritti umani” spiega.

Quest’anno il vincitore è Costa-Gavras, il regista greco che attraverso le sue storie ha denunciato gli orrori delle dittature. Quella greca dei colonnelli (Z, l’orgia del potere), il nazismo (Music Box, Amen), i regimi comunisti dell’Europa dell’Est (La confessione). E lo stesso Cile di Pinochet, con Missing (1982), storia di un padre (Jack Lemmon, in un inconsueto ruolo drammatico) che arriva a Santiago dagli Usa per cercare il figlio scomparso e scopre che, sotto un regime, “non fare nulla di male” non è sufficiente per salvarsi. E nemmeno essere cittadini statunitensi.

Un’altra casualità che casualità non è. Un cerchio che si chiude, per Rodrigo. E altri, nuovi, che si aprono per chi non rinuncia a farsi domande e lottare per la giustizia.