Torna in Argentina, dopo l’anteprima della Settimana italiana del cinema a marzo, il film Una femmina, el código de silencio di Francesco Costabile, esordio nella fiction del regista calabrese, che si è fatto le ossa nel campo del documentario. In quell'occasione, il regista era venuto a Buenos Aires per presentare la sua opera e aveva rivelato che un fratello del nonno era emigrato proprio qui.

Una storia di mafia (di ‘Ndrangheta, la mafia calabrese, oggi la più potente e radicata anche in Argentina, con un giro d’affari superato solo da quella russa), lontana dagli stereotipi, dove protagonista assoluta è una donna, una fimmina.

Sottomesse alla famiglia, che si tratti di quella d’origine o di quella del marito, sottomesse non solo agli uomini ma anche alle madri, alle nonne e alle suocere, le donne sono le presenze invisibili dell’organizzazione mafiosa.

Invisibili ma centrali. Come scrive lo studioso e docente universitario Enzo Ciconte, nel libro Dall’omertà ai social. Come cambia la comunicazione della mafia (Edizioni Santa Caterina), a loro è da sempre affiata la trasmissione dei valori mafiosi attraverso l’educazione dei figli, allevati in una cultura che è al tempo stesso criminale e patriarcale. E sono sempre le donne che, per interrompere questa trasmissione e “liberare” i loro figli (e soprattutto le figlie), sono disposte a tradire l’organizzazione e a collaborare con la giustizia.

Tutti temi centrali nel film di Francesco Costabile, che pure – ci tiene lui stesso a sottolinearlo – è “un’opera di fantasia e non un trattato sociologico. Ma è anche un film di denuncia che io dedico alla mia terra, la Calabria, perché merita un riscatto, ed è bello che questo riscatto passi proprio attraverso le donne. Che hanno cominciato a parlare, a denunciare, a diventare testimoni di giustizia e per questo, per avere ‘tradito’, essere passate dalla parte dello Stato, sono state uccise dai loro stessi familiari”.

Di questo parla Una femmina. Di una giovane madre, ispirata ad alcune figure veramente esistite, come Maria Concetta Cacciola, Giusy Pesce e Lea Garofalo, raccontate nel libro Fimmine ribelli di Lirio Abbate (Rizzoli), che ha colleaborato alla sceneggiatura. La donna, misteriosamente (almeno all’inizio del film, poi si capirà che era una testimone di giustizia), vive in un luogo sconosciuto alla sua stessa famiglia (affiliata alla ‘Ndrangheta), ma accetta l’invito ad andare a trovare la figlioletta che non vede da tempo. Si tratta di una trappola e sarà il suo stesso fratello a ucciderla. Proprio come accaduto nelle vicende ricostruite da Abbate.

La bambina, Rosa, cresce con la nonna e gli zii, silenziosa e dura come la pietra delle montagne dell’entroterra calabrese, dove è stato girato il film. La morte della mamma resta per lei un mistero nebbioso sepolto nella sua memoria, un sogno da sveglia fatto di voci soffocate, porte chiuse in fretta, imprecazioni rabbiose.

Quelle verità non dette ma che tutti sanno, quelle negazioni (la cosiddetta omertà mafiosa) lasciano in Rosa un profondo dolore e una rabbia sorda, che si manifestano non con le parole, ma con i silenzi e i guizzi di ribellione nello sguardo dell’attrice Lina Siciliano, al suo esordio.

“L’ho conosciuta in una casa-famiglia gestita da suore, a Cosenza, dov’è cresciuta – racconta Costabile – e dov’era andata a trovare la sorella, all’epoca ancora minorenne. Io volevo girare il film in dialetto e cercavo attori locali. Un’educatrice della casa-famiglia mi ha detto che Lina poteva essere la persona giusta per me e l’ha convinta a incontrarmi per fare un provino”.  

Anche la vita di Lina, almeno la prima parte, è stata forgiata dal dolore e dalla rabbia. Le stesse emozioni che riesce a trasferire al suo personaggio. “Ha portato in scena il suo vissuto, la sua storia, e questo credo che sia il valore aggiunto della sua interpretazione” osserva il regista.  

La locandina italiana del film

Le riprese sono state realizzate soprattutto a Verbicaro (Cosenza), un Comune privo di infiltrazioni mafiose nel parco del Pollino, dove il regista ha cercato di ricreare un’atmosfera che ricordasse l’Aspromonte, il territorio dove la mafia è più potente.

“Volevo che la storia avesse una dimensione atemporale – dice Costabile –. Un luogo dove la donna fosse esclusa dalla vita moderna, privata del cellulare, delle reti sociali, senza il permesso di entrare da sola in un bar. Volevo riprodurre il senso di claustrofobia e la dimensione emotiva dell’essere donna in un ambiente di questo tipo”.

Ma attenzione. Una femmina non è un film-inchiesta sulla mafia. “A me interessava era raccontare le relazioni psicologiche e tossiche all’interno di una famiglia estremamente violenta, costruita sull’oppressione patriarcale” precisa Costabile.  

Avrebbe potuto raccontare anche delle infiltrazioni mafiose nello Stato e nelle forze dell’ordine, ma ha preferito concentrarsi sull’emotività dei personaggi e sulle relazioni interne al nucleo familiare.

“Di solito lo Stato e la polizia vengono descritti come collusi – spiega il regista – e a volte prevale una facile retorica, tutti a dire che in Calabria lo Stato non esiste. Invece c’è. Ci sono persone mettono a rischio la propria vita per dare alle donne come la mia protagonista un’alternativa, e quindi mi sembrava corretto rispettare il lavoro di queste persone e far vedere la presenza dello Stato – anche se per pochi secondi, solo alla fine – come via di uscita”. 

Un finale che arriva come una luce dopo tanta oscurità, al culmine di una scena molto intensa emotivamente ed esteticamente, con la rievocazione della processione del Venerdì Santo di Canosa di Puglia, quando centinaia di donne velate cantano un inno alla Vergine Desolata, che poi è una poesia di Jacopone da Todi.

“Ho voluto questa processione – spiega il regista – perché mi sembrava estremamente potente per il suo valore metaforico, come un abbraccio collettivo del mondo femminile che è pronto a ribellarsi, a liberarsi dal velo dell’omertà e del silenzio”.

Un richiamo anche alla religiosità del Meridione e una chiamata in causa delle Chiesa come istituzione?

“Non è stata una scelta consapevole – risponde Costabile –. Al Sud d’Italia il culto di Maria è molto sentito. Io sono credente, ma non propriamente cattolico, però penso che la forza del cattolicesimo sia proprio l’introduzione del femminile in una religione monoteista, che a questo punto non è più appannaggio di una visione maschilista”.

Il finale, inizialmente, doveva essere più esplicito, ma il budget era limitato e questo ha portato a sacrificare un po’ di cose, trasformandole in back story, lasciandole fuori campo. “Ma alla fine è andata bene così – scherza Costabile –. I limiti economici mi hanno obbligato a un finale estremamente metaforico ed emozionante.  Per me il cinema è un’arte estremamente soggettiva, tocca allo spettatore riempire gli spazi e creare il suo percorso di interpretazione”. 

(Ha collaborato Larissa Ronzoni)