Il bersaglio doveva essere un ponte strategico ma l’epicentro fu invece un ospedale. Al momento dell’impatto, in pochissimi secondi, morirono 80mila persone ma furono diverse migliaia le vittime che perirono successivamente a causa delle ustioni e delle radiazioni. Il calore arrivò a una punta di 6000 gradi centigradi al momento della detonazione.
Nel raggio di due chilometri dal punto d’impatto, la devastazione fu totale con un’altissima percentuale di edifici rasi al suolo. Dai racconti degli Hibakusha (il termine giapponese che indica i sopravvissuti agli attacchi atomici), il centro cittadino era una sterile landa grigia, privo di alcun segno di vita. Si diceva che nulla sarebbe cresciuto a Hiroshima per almeno 70 anni. Ma non fu così. Non tardarono infatti a spuntare dei germogli verdi su tronchi carbonizzati, all’apparenza morti, o dalle radici rimaste vive sotto il terreno radioattivo. Furono gli alberi a donare ai giapponesi i primi segni di speranza per il futuro.
Oggi, si contano 170 Hibakujumoku, letteralmente gli alberi reduci dalle esplosioni nucleari a circa due chilometri dall’epicentro, dove sorge il Memoriale della pace. Il più vicino al ground zero giapponese (a 370 metri di distanza) è un salice piangente le cui fronde continuano a specchiarsi sulle rive del fiume Ota.
Le specie sopravvissute sono più di trenta: ciliegio, mirto, robinia, peonia, giuggiolo, pino nero giapponese, agrifoglio di Kurogane, tiglio, ginepro cinese, oleandro (scelto come fiore simbolo di Hiroshima) e tanti altri. Alcuni hanno ancora ferite e segni visibili dell’esplosione: solchi o rami ricurvi.
Dove un tempo sorgeva il castello del fine Cinquecento (ricostruito negli anni Cinquanta), si può ammirare ancora oggi un eucalipto, piantato probabilmente a inizio Novecento.
Simboli di resilienza, veri e propri fossili viventi che hanno saputo adattarsi e prosperare nell’arco di 250 milioni di anni, i ginkgo biloba sono sopravvissuti anche alla bomba atomica, silenziosi testimoni di tragedie nella tragedia. Sotto i rami bruciati e il tronco piegato dell’esemplare secolare nel giardino di Shukkeien, a più di un chilometro dall’epicentro, andarono a cercare riparo molte persone dopo l’impatto. Nel 1987 64 salme vennero rinvenute nel parco e traslate nel memoriale.
Tutti gli Hibakujumoku sono riconoscibili da una targhetta gialla che li rende subito identificabili. I giapponesi fanno loro visita con regolarità e li tengono in gran considerazione, rivolgendosi loro con affetto. Un catalogo con alcune note biografiche è disponibile sul sito dell’associazione senza scopo di lucro Green Legacy Hiroshima, fondata nel 2011 da due amiche che capirono l’importanza di preservare valorizzare le storie eccezionali di questi reduci. Da quasi dieci anni, i volontari dell’ente, sostenuti dall’Istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca, raccolgono e inviano i semi e le piantine nate dagli Hibakujumoku a parchi, orti botanici, scuole, università e altre istituzioni pubbliche e private di tutto il mondo. In Australia, sono cinque gli enti che hanno ricevuto “discendenti” degli Hibakujumoku: il comune di Fremantle, la Katherine School of Air e tre atenei universitari (Australian National University, Griffith University, La Trobe University).
Anche in Italia sono diversi i luoghi dove stanno crescendo Hibakujumoku, l’ultimo in ordine cronologico l’Orto botanico dell’Università di Perugia dove all’inizio dell’estate italiana sono germogliati i primi esemplari di gingko e di albero di muku.
Segni di pace che, a 75 anni di distanza, ricordano il pericolo delle armi di distruzione di massa e dall’altra disseminano un messaggio importante sulla “sacralità della vita dell’uomo e la resilienza della natura”.