“Ho cominciato a recitare per farmi notare, per colmare una sorta di disagio esistenziale. Poi non sono più riuscito a smettere”. Ci sono attori che modellano il proprio ruolo su se stessi e altri che, con il mimetismo del camaleonte, sanno calarsi in panni diversissimi, assumendo fogge, tic e persino una fisionomia lontanissima dalla propria. Sergio Castellitto, attore e regista tra i più popolari della sua generazione, ha festeggiato in questi giorni i suoi primi 70 anni, marcati da un’adolescenza brillante da autodidatta, una bellissima carriera cominciata da figurante nel 1981 con due film opposti (“Tre Fratelli” e “Carcerato”) proprio mentre otteneva i primi successi a teatro, un felice sodalizio artistico e sentimentale con Margaret Mazzantini, la soddisfazione del figlio Pietro in concorso come regista alla Mostra di Venezia.

Atletico, posato, istrionico, riflessivo, cangiante, coerente sono tutti aggettivi che gli si addicono a conferma di un percorso professionale in cui non si è mai accontentato del semplice successo per sorprendere ogni volta un pubblico più vasto. Se sul grande schermo ha restituito soprattutto se stesso con prove magistrali come il suo “Non ti muovere” (2004) premiato dal David di Donatello al miglior attore, in televisione si è abbandonato spesso al più virtuosistico trasformismo, dall’affilato profilo di Fausto Coppi al saio di Padre Pio (“Interpretare Pio mi ha cambiato”), dalla tonaca di Don Milani alla seriosità compunta di Aldo Moro, dall’uniforme del generale Dalla Chiesa al volto tormentato di “Drake” Ferrari (“Se penso a Ferrari penso ai suoi occhiali scuri, a quello sguardo bruno con cui decise di guardare e farsi guardare dal mondo. Un vetro scuro che modifica tutto ciò che lo circonda: il rosso delle sue macchine, i piloti, le donne, i suoi figli”.).

Tra grande e piccolo schermo iscrive il suo nome in un centinaio di titoli, con grandi soddisfazioni anche lontano dall’Italia, dall’incursione americana de “Le cronache di Narnia” (2008) in cui vestiva i panni regali di Miraz alle ripetute presenze nel cinema francese d’autore. Qui a scoprirlo è Luc Besson con “Il grande blu” (1988), ma è Jacques Rivette a valorizzarlo fin da “Chi lo sa?” (2000) e poi “Questione di punti di vista” nove anni più tardi.