Il referendum tiene banco: era inevitabile con il conto alla rovescia ormai ben avviato verso la sentenza del 14 ottobre. Verdetto certo: o Sì o No con la doppia verifica della maggioranza a livello nazionale e almeno in quattro Stati.
Ricevere più voti, infatti, non basta per far passare qualsiasi quesito referendario, il consenso deve essere confermato nella maggioranza degli Stati, quindi il tre a tre non completa i requisiti imposti dalla Costituzione.
Pareggio ‘statale’ già registrato nel 1977 quando il 62,2 per cento degli australiani aveva votato in favore del rinnovo totale sia della Camera sia del Senato ogni tre anni, ma Tasmania, Queensland e Western Australia avevano votato No, bloccando la proposta.
Una bocciatura che ha lasciato inalterato il mandato di sei anni dei senatori, che impone un rinnovo, ad ogni tornata elettorale, di solo la metà dei rappresentanti della Camera Alta.
Niente riforma quindi a causa di un pareggio, a livello di Stati, che non è da escludere neanche in questo 2023. C’è però una differenza importante che mette in evidenza una gravissima lacuna costituzionale: ci sono, infatti, più di settecentomila cittadini australiani che contano, in tempo di referendum, decisamente meno degli altri venticinque milioni e mezzo o giù di lì. Il voto dei residenti del Northern Territory e dell’ACT (Territorio della Capitale), infatti, conta solo in campo nazionale, ma non ha nessun valore per ciò che riguarda il requisito della seconda maggioranza, quella degli Stati. Un problema risolvibile a livello di Parlamento federale, ma ormai non c’è tempo per correggere l’anomalia, anche se proprio nel caso del referendum per il riconoscimento costituzionale della minoranza indigena e la creazione della Voce, il voto del NT è particolarmente importante: secondo il censimento del 2021, infatti, ben il 30,8 per cento della popolazione del Territorio è indigena, negli altri Stati si arriva al massimo al sei per cento, con il Victoria fanalino di coda con solo l’1,2 per cento di aborigeni iscritti sulle liste elettorali.
Più di settecentomila elettori (e un terzo indigeni), quindi, con diritti ridotti e ottenuti solo grazie proprio al referendum del 1977, quando perlomeno è stata data agli abitanti dei territori la possibilità di votare nelle consultazioni referendarie, seppure con il limite di essere considerati solo nel conteggio totale dei voti.
Una lacuna che può essere corretta solo dagli stessi abitanti del Territorio che hanno la possibilità di ottenere il riconoscimento di Stato facendo ricorso alla sezione 121 della Costituzione con ratifica del Parlamento federale. Una possibilità bocciata dagli stessi abitanti del NT, nel 1998, quando il 51,3 per cento ha votato contro l’idea in un’apposita assemblea costituzionale per almeno due ragioni: le difficoltà che incontrerebbe a livello finanziario data la sua scarsa popolazione in un’area che copre un sesto dell’intero Continente; il secondo motivo della bocciatura del mini-referendum interno riguarda una generale sfiducia nei confronti di vari governi del Territorio, che operano sempre sotto il controllo, per ciò che riguarda i meccanismi contabili, di Canberra che paga per i servizi con una generosa iniezione di fondi attinti dal pozzo federale della GST.
Prossimo appuntamento, probabilmente fra cinque anni, in occasione dl cinquantesimo anniversario della creazione del Territorio, che prima faceva parte del South Australia.
Anomalia costituzionale che sicuramente inciderà sul risultato del 14 ottobre, ma c’è un’altra anomalia da correggere in vista del voto referendario e riguarda quell’invito, al limite dell’offesa, rivolta ad una parte della popolazione australiana che arriva dal fronte del No. “Se non capite quello che viene proposto votate No”.
Un consiglio imbarazzante che non fa certo onore a chi lo fa e chi lo accetta. Un invito che prende spunto dalla campagna anti-repubblica del 1999, scaltramente intorbidita da John Howard con il tipo di repubblica che veniva proposta, andando oltre alla domanda referendaria sulla storica svolta costituzionale.
Tema diverso, ma stessa strategia più di vent’anni dopo. Niente risposta diretta all’insegna della massima semplificazione come si era augurato Albanese, ma interrogativi in serie sui dettagli della Voce fino ad arrivare all’invito tattico: “Se non siete sicuri, votate No”.
Ma con più di tre settimane dal test popolare c’è tutto il tempo per informarsi e capire per cosa si vota e in che cosa consiste il cambiamento costituzionale proposto dalla comunità indigena e portato avanti dal governo, rispettando gli impegni presi con gli elettori nella campagna del 2022. Perfettamente legittime le domande e anche i dubbi senza etichette di ‘buoni e cattivi’. Ma sicuramente non al voto dettato dalla superficialità, da un non capire o non sapere dato che in gioco c’è un cambiamento di grande importanza per il Paese. Sì o No in perfetta indipendenza, con consapevolezza e convinzione.
Il fronte del Sì è unito nel suo intento di cambiare la Costituzione per un riconoscimento della popolazione indigena, che la stragrande degli australiani considera dovuto, che però su richiesta della stessa comunità aborigena e degli abitanti delle isole dello Stretto di Torres vuole andare al di là dei simbolismi con la creazione di un ente di rappresentanza permanente a Canberra. Una svolta davvero storica per il Paese: solo quello sulla repubblica, tra tutti gli altri referendum, aveva la stessa portata a livello di cambiare, dal punto di vista della sua struttura governativa, davvero l’Australia.
Il No, alla fine non deve fare alcuna campagna propositiva. Come nel 1999 per la repubblica si può permettere anche una frammentazione per quello che riguarda le ragioni dell’opporsi. Gli anti Voce comprendono infatti: chi non appoggia in linea di principio la creazione dell’ente consultivo; chi ritiene che possa avere troppi poteri, nonostante le rassicurazioni sull’autorità che non cambia del Parlamento; chi pensa che di poteri non ne abbia e proprio per questo che non serva; chi teme che sia solo il primo passo verso i trattati e altre rivendicazioni ecc. Uniti nel No per ragioni diverse e muro difficile da scavalcare. L’ultima volta di un referendum la tattica ha funzionato. John Howard ha guidato la cordata del No proprio giocando sul fattore dei dubbi sul dopo, ben sapendo che i ‘repubblicani’ erano più numerosi dei monarchici: alla fine gli australiani, come sappiamo, optarono per lo status quo costituzionale, decretando con un 55 a 45, in percentuale, la sconfitta del Movimento repubblicano guidato da Malcolm Turnbull, sconfitta confermata in tutti gli Stati. Un gran peccato per chi sta ancora aspettando una prova d’appello.
La campagna del No è sempre più facile, il Sì è da spiegare, mettendosi a caccia dei voti ‘liberi’ perché su entrambi i fronti, generalmente, c’è un buon numero di convinti in partenza. L’invito è quindi quello di informarsi, di capire l’importante domanda che viene posta attraverso la rarità, per l’Australia, del referendum, con quella sua doppia formula di sicurezza garantita a tutti gli australiani meno quelli che abitano nel Northern Territory e nell’ACT.