MESSINA - Chi era veramente l’autore delle straordinarie opere di William Shakespeare? L’attore di Stratford, venerato dagli inglesi, ma semi-analfabeta, di cui restano un testamento che nulla dice delle opere, e alcuni contratti per prestare soldi a usura. Oppure quella lunga lista di possibili alter ego che da 400 anni viene proposta dai quattro angoli della terra: Francis Bacon, il terzo conte di Southampton, persino lo stesso Marlowe? 
C’è un mistero che aleggia intorno a quello che viene indicato forse come il più grande drammaturgo di tutti i tempi. Negli ultimi anni si è fatta strada l’ipotesi che il “vero” Shakespeare fosse in realtà uno studioso di origini siciliane: John Florio, figlio di Michelangelo, un erudito in esilio, scappato all’Inquisizione messinese e nascosto a Venezia e a Verona, prima di approdare a Londra. Lì nacque John: sfruttò l’immensa cultura classica del padre e venne accolto dal conte di Southampton insieme a un giovane attore, Will di Stratford. 
Furono per molti anni protetti del potente aristocratico, abitarono lo stesso castello e la somma è presto fatta. L’unico possibile vero autore delle meravigliose opere è proprio Florio. Concepire quelle opere senza una cultura classica formidabile è impossibile. Come faceva l’attore a conoscere alla perfezione la toponomastica di Messina (“Molto rumore per nulla”), Venezia (“Il mercante”), Verona (“Romeo e Giulietta”) o Padova (“La bisbetica domata”)? 
I dubbi si sono moltiplicati a cominciare dai giudizi di Mark Twain, e poi Charles Dickens, Henry James e persino Sigmund Freud, comprovati dagli studi più recenti di molti ricercatori italiani e britannici: Saul Gerevini, Corrado Panzieri e Giulia Harding. Il regista Stefano Reali sta preparando una fiction, prodotta in Spagna, che narra non solo i rapporti tra Florio e Shakespeare, ma anche l’incontro tra Miguel de Cervantes e Florio, avvenuto nel capoluogo peloritano mentre il genio spagnolo era ricoverato in ospedale dopo il ferimento nella battaglia di Lepanto. 
Anche Reali condivide la tesi: “Non esiste la certezza - dice il regista - ma una serie stringente di indizi che hanno sostanza di prova. Florio conosceva la novellistica rinascimentale italiana, il greco e il latino che l’attore di Stratford sconosceva. Poi il giallo si infittisce. Conosciamo il testamento olografo di Florio che lasciava l’utilizzo dei suoi manoscritti al conte di Pembroke, la cui famiglia ha negato finora l’accesso. Il professor Panzieri ha chiesto il permesso all’allora premier Tony Blair e alla regina Elisabetta II, ma senza successo”. 
Il motivo è presto detto: “Il marchio Shakespeare per gli inglesi vale alcuni miliardi di sterline ed è impensabile che vi rinuncino. Persino gli scrittori elisabettiani, contemporanei di Shakespeare, fanno riferimento alla possibile frode, ma nessuno poteva sospettare che era così facile fare soldi con il teatro. E quando il successo crebbe a dismisura dopo la morte dell’autore e dell’attore, i Pembroke pubblicarono il “First Folio”, capirono che potevano dare in affitto le opere in loro possesso ai kingsmen e nacquero così le royalties, i diritti d’autore”. 
Quello che è sicuro è che Florio fu l’autore del dizionario inglese-italiano, che regalò al vocabolario inglese più di 200.000 nuovi vocaboli, e che la voce “Florio” dell’enciclopedia britannica nel 1880 constava di 25 pagine; 10 anni dopo, solo due.